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[foto: La scaletta di Pronti al Peggio]

Non posso dire di aver mai compreso appieno cosa sia l’indie. Indie pop? Indie rock? Indie boogie? Rimane il fatto che certa musica che ascolto finisce sotto questa etichetta. Ah, il problema dev’esser proprio quello, l’etichetta. Freghiamocene. Sarà un movimento, sarà qualcosa d’inesistente come la maggior parte dei movimenti. L’intervista che segue è ad Andrea Girolami, una delle menti di Pronti al Peggio, di cui ho già parlato qui. Una web tv che si occupa di musica (indie? boh), e lo fa avvicinandosi di traverso ai protagonisti attuali della canzone italiana, quella meno conosciuta. Sul sito di Pap troverete molte rubriche interessanti, ma consiglio qui una delle prime interviste/reportage realizzate, quella a Jukka dei Giardini di Mirò, che dà subito l’idea dell’approccio alla materia.

Come nasce l’idea di Pronti al Peggio? Intendo dire, quando vi siete accorti che tecnicamente si poteva cominciare?

Quando ci sono stati i soldi. Scusa la poca poesia ma è così. Pronti Al Peggio è un format a budget ultra ristretto ma per produrre alcuni dei contenuti e, soprattutto, ripagare me e Iragazzidellaprateria che ci lavoriamo 12 ore al giorno serviva un budget di partenza. Abbiamo prima girato dei piloti che abbiamo presentato in giro, poi è partita la prima serie vera e propria.

Prima so che sei stato a Qoob e ti sei comunque occupato di musica, giusto? Si può dire che l’esperienza e i rapporti maturati prima ti siano tornati utili per PaP?

Sì e no. A Qoob mi sono occupato della programmazione musicale del canale tv (scelta dei video) e della gestione dei contenuti musicali del sito. Non di produzione di contenuti veri e propri. Diciamo che è servito più che altro per osservare gli errori altrui e cercare di non ripeterli.

Su Qoob. Quello era già un tentativo di mischiare tv e web a proposito di musica, ma di musica-dal-basso. Pur essendo due cose molto diverse, si può dire che Pronti al Peggio sia un passo in più verso una visione orizzontale del mondo musicale? (perdona il concetto espresso in maniera così rozza)

Non sono sicuro di aver capito cosa intendi per visione orizzontale. A me piace parlare di format “incidentalmente” musicale, nel senso che alla musica ci arriviamo ma sempre per strade traverse o originali. Mi chiedo ancora cosa sia l’indie.

Credo che saremo in disaccordo su quanto sto per dire. Direi che l’indie, come altri “movimenti” musicali, sia più un fatto d’atteggiamento che di genere musicale; non vedo cosa c’azzecchino Le luci della centrale elettrica con i Radiohead ad esempio; poi mi chiedo, anche da un punto di vista dell’atteggiamento, cosa c’azzecchino i gruppi citati sopra; forse è solo un atteggiamento verso il music business? (che suona sempre bene)

C’è chi fa le cose per sfondare, per guadagnare soldi o perché un’analisi di mercato gli ha detto così. E sono tanti. Poi c’è chi fa le cose per urgenza, per bisogno espressivo, semplicemente perché gli piacciono e non potrebbe-vorrebbe fare altro. Qualcuno, in musica, chiama questa seconda categoria indie, va bene se ci fa comodo, tanto sappiamo tutti il vero significato. Serve più che altro a separarci dagli altri, ma è un discorso di forma più che di sostanza.

Altra cosa sull’indie: che io sappia, a differenza di altre sottoculture metropolitane (argh) non credo ci sia un qualche tipo di droga strettamente legato a questo stile di vita. Eccetto forse quel pensare sempre che siamo un po’ tutti nella merda (cosa che genera dipendenza, a mio parere).

L’indie pensa di essere nella merda perché non si droga abbastanza. E’ un grosso errore che io cerco di non fare.

Quello che mi piace di PaP è il motivo di fondo: e cioè che produrre musica, oltre che un lusso (data l’offerta, visto che non siamo negli anni ’50 e tutti hanno una band), è un grosso sacrificio, e che non è più tempo di rockstar. Il che esce fuori molto bene nell’intervista a Jukka dei Giardini di Mirò, quasi a disagio nel far ascoltare la sua musica sul posto di lavoro.

Oppure che nessuno è una rockstar se lo osservi abbastanza da vicino. Le superstar oggi vengono create a tavolino, perché permettono di creare le cosiddette property: vacche grasse da cui poter tirare fuori soldi in ogni modo. Ecco, noi cerchiamo di fare la cosa opposta, non perché siamo dei missionari ma crediamo sia semplicemente più interessante parlare o sentir suonare una persona in carne ed ossa che un cartellone pubblicitario.

E chiudiamo con Milano. Incredibile, ma non ci sono mai stato. La conosco solo attraverso i racconti di altri emigrati lì. Oppure attraverso una cosa molto interessante che hai riportato qui nel tuo blog. Milano vista da un pugliese, cioè io invece, sembra una terra di grandi opportunità contro cui però si è sempre in lotta. Ci ho preso?

Non è che ci siano neanche tutte queste opportunità a dire il vero. Personalmente mi ci trovo molto bene, è un posto aspro ma non mi ritengo certo una persona particolarmente socievole. Dunque chi sono io per giudicare?