Ho incontrato i Selton quasi per caso, in provincia di Taranto, al festival Popularia. Molta gente in vacanza da queste parti finisce in posti sublimi per caso. Beati loro. Comunque, dei Selton sapevo poco o niente: e cioè che suonano canzoni di Cochi e Renato in portoghese – infatti si tratta di quattro ragazzi brasiliani. E’ stata la mia mania per i kazoo a fare il resto: dopo il concerto, li ho braccati fin quando non sono riuscito ad avere il loro (kazoo). Ho parlato a lungo con Ricardo, un ragazzo in gamba e con le idee chiare. Difatti il mio approccio da alcolista anonimo non deve aver fatto subito breccia. Comunque, ci siamo scritti e ripetuti le domande di quella sera via mail, e questo è il risultato. L’unico dubbio che avevo riguardava la lingua: dovevo correggere l’italo-portuguese di Ricardo? Ho deciso di no, cercando – per iscritto – di conservare quello strano ritmo che avevano i quattro nel discorrere la sera in cui li ho contattati.
Per cominciare, un po’ di storia dei Selton: come siete finiti in Spagna prima e in Italia poi? E infine, perché proprio Cochi, Renato e Jannacci?
Bueno, non siamo andati in Spagna insieme. Eravamo amici in Brasile, però non suonavamo insieme. Ognuno è andato per i suoi motivi e per caso ci siamo trovati a Barcelona. Lì abbiamo cominciato a suonare nel Park Guell e un produttore milanese ci ha visto e portato a Milano. Una volta qui abbiamo sentito un po’ di musica italiana e ci è piaciuto subito il mondo surreale di Jannacci e l’umorismo di Cochi e Renato.
Quali sono le differenze tra Brasile, Italia e Spagna come industria discografica?
In Spagna abbiamo soltanto suonato per strada, senza provare il mercato. A dire la verità, stiamo cominciando e il riferimento che abbiamo è l’Italia. Non siamo un gruppo molto conosciuto, ma riusciamo ad avere qualcosa con la musica. In Brasile pensiamo che un gruppo sconosciuto come noi non avrebbe le stesse opportunità. Diventa quasi una differenza di paese di terzo e primo mondo.
Non sarete un gruppo mainstream, ma comunque avete una piccola industria alle spalle, adesso. Siete anche stati in tv. Quanto influisce sul vostro suono, sul vostro approccio, soprattutto live, visto che eravate abituati a suonare per strada?
Niente, non influisce niente. Cerchiamo di rispettare i momenti del gruppo, sempre imparando con quello che viviamo.
Quanto siete disposti a farvi cambiare dall’industria discografica? Domanda cattivella. Ma ve lo chiedo perché vi voglio bene.
Nel mercato attuale le regole sono cambiate. Uno può sempre cambiare se sente che è la cosa giusta.
Ricardo mi ha detto che lui non ha mai visto un film con Renato Pozzetto. A nessuno di voi è mai capitato? Si tratta di piccoli capolavori incompresi, ve lo giuro.
Grazie, giovane. Lo terremo in conto.
Come diavolo fa Cachopa (il batterista) a fare quelle cose con la bocca? E’ un uomo-percussione. E’ un azzardo dire che si tratta di musica popolare brasiliana?
Quello si chiama percussione corporea, una tecnica svilupata da Fernando Barba, un musicista brasiliano che ha un gruppo chiamato Barbatuques. Daniel l’ha imparata a Barcelona.
Durante i concerti citate Umberto Eco. Cos’altro vi attira della cultura italiana, fuori dalla musica?
L’Italia è un paese di cui non bisogna neanche parlare in termine di cultura. Dall’arte, alla musica, al cinema, alla letteratura, il vostro paese ha datto tanto al mondo. Per non parlare del cibo.
Ora, una domanda fondamentale. Gli italiani si dividono in due gruppi: quelli che dicono che la lingua italiana è poco musicale, quindi cantare in italiano è più difficile; e quelli che dicono che l’italiano è la lingua musicale per eccellenza. Voi che siete brasiliani e cantate in almeno tre lingue, che ne pensate?
L’opera sembra che viene meglio cantata in Italiano, la bossa in portoghese e il rock in inglese. Però oggi si prova a mischiare tutto, quindi non c’è una lingua più musicale che altra.
Altra domandona fondamentale: chi è il più grande suonatore di kazoo al mondo, escluso il sottoscritto? Io direi Paolo Conte.
Per noi, Syd Barrett.