Trovava appropriato, discretamente congeniale, che la sua razza dovesse estinguersi per inondazione. Miserie affogate dall’onda e poi messe ad asciugare al sole dei secoli. Meglio affogare che annacquarsi. Meglio l’agguato dell’acqua.
Il primo, un sussulto da bambino, al mare. L’ombrellone accanto, dei milanesi. Stavano in acqua come il loro accento sulla sabbia fine di quel lido. Non uscivano. A lui toccava: guardarsi i polpastrelli, arrugginiti, il richiamo della mamma. Loro, no. Anni dopo, su quello stesso mare, una petroliera incagliata.
Il secondo agguato, alla salina. Tra i canneti spiò fino a trovare l’amore di due ragazzini. Non resistette all’impulso del cavallo. Fin quando lei non ebbe un sussulto, si era accorta della spia. Così fuggì, inciampando coi pantaloni alle caviglie, terminò due corse in acqua e seduto fradicio vide i due ragazzini correre, lontano. Lontano. Lui rideva.
Il terzo agguato, un impulso, sull’acqua bassa di una spiaggia sudamericana. Si erano dipinti di sabbia umida, lui e la ragazzina, adulta come si è adulti da quella parte di mondo. Per un attimo sentì del freddo, un freddo impassibile e scemo, e capì che era arrivato. Dove.
Il quarto, un’anomalia. La stanza sul lago. Non dormiva da giorni, era lì per morire. Lo avrebbe fatto. Ma era solo insonne e un po’ convinto di vivere ancora. In eterno. Il lago al mattino era il sogno dell’esploratore solitario, sempre la stessa scoperta, muta e in pezzi, rattoppata, rubata ad altri luoghi.
Il quinto e il sesto agguato, ai laghi vicino un paesino del nordovest italiano. Strana sorte, i laghi. Era convinto, convinto sul serio, che prima o poi sarebbero diventati mari. Così un giorno le trote avrebbero bevuto salato. Al tempo, un amore giovanile e un paio di speranze. Lei lo lasciò a dormire su una panchina vicino al castello, ricoperto dalle foglie sopravvissute all’autunno. Lontano dal lago, lontano dai mari.