Come un amico che si sposa da un giorno all’altro, senza preavviso, come il chioschetto che vende le angurie che spunta fuori dal nulla in un giorno d’estate.
Con questo messaggio, una mattina di luglio 2015, i Wilco annunciano l’arrivo del loro nuovo disco, Star Wars. A quanto pare, lo hanno messo online – gratuitamente, per qualche ora, e a sorpresa – semplicemente perché “è divertente”.
E allora, dove li avevamo lasciati, Jeff Tweedy e compagnia? L’ultimo lavoro di studio era The whole love (2011), cui erano seguiti progetti paralleli, solisti (e familiari), produzioni di festival e partecipazioni varie. L’idea, tutto sommato, era che i Wilco fossero in quella parte della carriera (della vita?) in cui, in effetti, puoi finalmente pensare a divertirti.
E in effetti, in Star Wars tutto sembra rimandare a un’idea di divertimento. Nel senso (come si suol dire) più nobile del termine. Un piccolo paradosso che sta tra l’intrattenimento da mercato discografico novecentesco e il piacere di suonare (e produrre dischi) senza il condizionamento e le ansie dell’industria: a partire dal lancio di questa mattina, passando per il titolo e la copertina dell’album, che stridono parodisticamente, se pensiamo alla saga di George Lucas – il gatto dell’illustrazione ammicca facendo l’occhiolino mentre scarichiamo il disco da wilcoworld.net – fino, ovviamente, al disco stesso.
Star Wars dura pochissimo. Undici canzoni, per la maggior parte tra i due e i tre minuti, con la sola You satellite, tesa e romanticamente ipnotica, oltre i cinque. L’apertura è per la strumentale EKG, un minuto e quindici di chitarre che si inseguono e si inacidiscono spezzandosi e accartocciandosi, una sull’altra, su un drumming insieme regolare e selvaggio. La chiusura è affidata invece a Magnetized, tre minuti e quaranta di sussurrato intimismo spaziale. Nel mezzo, le melodie, ruvide e scanzonate, di Random name generator e The joke explained, il sound cupo e saturo del rock’n’roll di Pickled ginger, l’episodio malinconico (l’unico, forse) di Where do I begin, con tanto di coda con batterie reversed (altra eco beatlesiana, insieme a certe linee melodiche del cantato di Tweedy). Poco più di mezz’ora in cui rock classico, alternative e sperimentazione si amalgamano alla perfezione, per cui è davvero difficile dire dove finisca uno spunto o una fonte (perché nei Wilco confluisce quasi un secolo di musica rock), dove inizi l’altra.
Un disco breve – non per questo un lavoro improvvisato. Al contrario, il sound, al solito dei Wilco, è raffinatissimo, curato in ogni minimo dettaglio. Star Wars conferma quello che Tweedy e soci sono da un decennio: una band che dimostra che c’è vita oltre l’adolescenza creativa che sì, ti fa scrivere canzoni intense, tuttavia inchiodandoti a una conseguente e inevitabile fiacchezza compositiva; ancora, una band capace di una scrittura piena e felice, perché ormai padrona di un linguaggio, quello rock, con tutte le soluzioni stilistiche che può offrire.
Ma c’è, forse, anche dell’altro: ovvero l’indicazione di una via alternativa a quella dei dinosauri del rock, per cui l’estinzione si palesa nel momento in cui si inizia a suonare sempre lo stesso pezzo. E questa via è quella di una band che suona e produce musica di continuo, potendosi permettere di cristallizzarla, di darle forma con un disco, quando – semplicemente – ne ha voglia. E di regalare quel disco ai fan, utilizzando, dalla prospettiva di chi in qualche modo è sopravvissuto, quella stessa rete che salvò un album bellissimo come Yankee Hotel Foxtrot dal potenziale dimenticatoio. Era il 2002, i Wilco cominciavano finalmente a diventare se stessi.