Il protagonista di questa chiacchierata via mail ha avuto l’indubbio fegato di concorrere a far laureare il sottoscritto. A parte questo piccolo neo, Carlo Formenti è docente di Teoria e tecnica dei nuovi media presso l’Università del Salento e giornalista (Corriere della Sera, Sole 24 Ore). Tra le sue ultime pubblicazioni, Cybersoviet. Utopie Postdemocratiche e nuovi media, in cui si affronta il tema della reale democraticità della rete. Diciamo pure che l’eccitazione della prima ora è passata, per molti: non a caso, uno dei passaggi più interessanti di quanto segue è a proposito della capacità di organizzarci, noi tutti bellimbusti della rete, anche fuori da Internet (detto in soldoni). Tutti i libri (anche i racconti di fantascienza) del professor Formenti sono disponibili qui. Ah, e sul finale d’intervista: tra nemmeno cinque anni sentirete gli aggiornamenti di status di Facebook o di chissà quale altra diavoleria direttamente nella vostra testa, mentre state camminando per strada. Scommettiamo?
Cosa cambia dopo la sentenza Pirate Bay? Sul suo blog lei parla di educazione alla condivisione e di intelligenza collettiva: la condanna dei “pirati svedesi” non cambierà le abitudini degli utenti, ormai a loro agio con Creative Commons e copyleft in genere?
Nessuna sentenza può invertire il flusso del tempo. Le tecnologie digitali hanno irreversibilmente cambiato le modalità di fruizione della musica, dei video, delle notizie e di tutti gli altri prodotti dell’industria culturale; i vecchi modelli di business, fondati sulla vendita di copie di un’opera originale realizzata con forti investimenti economici, sono morti e sepolti. Questo lo sanno anche i discografici, le major di Hollywood e gli editori, ma non rinunciano ugualmente a condurre una battaglia di retroguardia per limitare i danni e guadagnare il tempo necessario a riconvertire le loro strutture produttive e distributive.
A proposito di educazione e di etica su Internet: a che punto è la consapevolezza dei prosumer (produttori+consumatori)? A volte ho l’impressione che, comunque, non si tratti sempre di produttori ma di semplici divulgatori di materiale preesistente, per la maggior parte (ammesso che la creazione implichi di creare qualcosa dal nulla). In un gioco che consente alle multinazionali che gestiscono i nostri contenuti di studiare e, all’occorrenza, sfruttare economicamente un gusto, uno stile o un prodotto da lanciare sul mercato. Esagero?
No, la sua è una fotografia abbastanza fedele di quanto sta avvenendo. La creatività collettiva degli utenti che distribuiscono “contenuti autoprodotti” è, in larga misura, espressione di un lavoro di “re mixing” degli stessi prodotti dell’industria culturale, che serve a quest’ultima per analizzare gusti e tendenze, studiare nuovi prodotti, servire sempre meglio le nicchie di un consumo che è sempre meno di massa e sempre più distribuito lungo le frazioni di un mercato “a coda lunga”. Come ho già più volte sostenuto, le tecnologie del Web 2.0 sono l’anticamera di nuove forme di sfruttamento capitalistico di un’intelligenza collettiva che, almeno a tutt’oggi, non appare dotata di consapevolezza politica né, tanto meno, degli strumenti organizzativi per far valere i propri interessi.
A questo punto la mia domanda è: più che di violazione di privacy a proposito di social network, non si dovrebbe parlare di “autoviolazione” della privacy? La maggior parte dei miei amici su Facebook condivide spesso contenuti persino intimi, Internet viene usata quasi come una vetrina in cui mettersi in mostra (mi viene in mente la teoria dei tipi proteiformi di Rifkin: attori in grado di assumere più maschere contemporaneamente, in sostanza diversi da ciò che si è fuori dal virtuale).
Indubbiamente le pulsioni esibizioniste che alimentano certi comportamenti degli utenti (soprattutto i più giovani) dei social network offrono ottime opportunità alle società che gestiscono queste piattaforme; anche se non sembra che siano ancora riuscite a convertire in profitti questa disponibilità a esporsi dei loro utenti.
Tornando al diritto d’autore: quanto è credibile il nuovo Youtube che applica con ambigua severità il copyright restrittivo e allontana contenuti ritenuti offensivi?
Più che la “censura”, a colpire nella nuova strategia adottata da Youtube, sono gli accordi con le major di Hollywood per distribuire film e serie tv “gratuite” (ma piene di spot: in pratica è un rimodulazione del modello di business della tv generalista adattato all’erta della web tv). Credo che sia l’inizio di una trasformazione destinata a rendere sempre più marginale il carattere “democratico” del network.
Domanda dozzinale e facilona: a che punto è l’ibridazione uomo-macchina raccontata, tra gli altri, dallo scrittore James Ballard scomparso qualche giorno fa?
Si sta spostando sempre di più dalla dimensione del cyborg (la macchina che veste un corpo umano come in Terminator, o l’uomo che usa parti di ricambio meccaniche, come in Robocop) a quella della ibridazione fra mente e software: avremo presto forme di telepatia e telecinesi assistite dal computer.