Faccio molti schizzi, mi sfuggono le sfumature sul foglio e gli altri, invece: una linea netta e sono al punto. Un conto aperto con le parole, con le idee: se è una meccanica delle idee, quella che governerà la mia vita, pregherò che si converta in ritmo. Del resto, i libri comprati e mai letti: non era quello che volevo, l’accumulazione indegna. Questo ad esempio il senso di colpa che avvampa in libreria, perché di ogni libro si fa salva l’idea, prima che il contenitore, e tutte queste idee ammassate, stipate una sull’altra, schiacciate da colare ego – segnano un limite, il mio, che non potrò abbracciarle per intero.
Era l’altro giorno che giocavo da solo, letto o scrivania, era l’altro giorno che mi accarezzavo. “Le poesie” scrivevo, “corrono via impazzite come galline senza testa”. Io non avevo pudore, le onde le incontravo, agosto erano gli ultimi due giorni di maltempo per abbracciare acqua violenta. Scivolare verso il mare, scivolare verso la fine per incontrare i colpi di coda di una stagione intera, la resa dei conti, la resa del vento.

Aggiustare è un altro limite: perché si parte dall’autoaccusa, lì ti inchioda e non ti smuove.

Non ho assolto nessun dovere, perciò non ho potuto insegnare. Quando mi è capitato, mi sono camuffato. Fratello io che non ne avevo, compagno io che ne ho perduti e perdute, complice io distratto: perciò non ero niente e passavo al vento. Il vento semina, quella del polline è la prima favola che si racconta, favola leggera per corpi decaduti, favola di splendore per una razza quasi estinta.
Quando saprai che il polline viaggia persino sopra il mare, e per chilometri, allora sì, allora arretrerai.
Quanto a me, davanti all’oro azzurro il sentimento più – come dire? giusto? – mi pare sempre, comunque: il timore.