Dice Paolo Cognetti che con la scrittura funziona come col maiale, ma al contrario: molto si deve buttar via. Allora immagino i quadernoni su cui Paolo scrive piano, li immagino pieni di cancellature e riscritture. Immagino l’immersione nel silenzio in cui si tenta di distinguere, cogliere la differenza tra il vestito e il mestiere dello scrittore. Un silenzio che serve a ricalibrare il tempo interiore, quello dell’uomo e quello dei racconti che scrive. Finché questi due tempi non combaciano, immagino anche questo, e allora funziona come per chi racconta con la voce: l’uomo sarà quello che narra – coinciderà con la materia orale – per la durata del racconto; poi sarà libero.
Di Paolo sapevo che scrive solo racconti e che scrive poco. Due caratteristiche, in tempi d’abbondanza, che nel linguaggio (e dunque nell’uso) comune non fanno un bravo scrittore. Precisione e lentezza, un tempo diverso da quello che viviamo in genere, in generale: così pure nei racconti di Paolo. Sei seduto accanto ai suoi personaggi, sei con loro, ne hai compassione, pietà, ne deriva un assunto, una sensazione: che il mondo, di tanto in tanto, sia un posto pulito, come quel che esce, dopo mesi o anni, dai quadernoni di Paolo. Con la fatica che immagino soltanto.

Cosa rappresenta di te, la scrittura?
Ho sempre amato la definizione che Flannery O’Connor dava della scrittura come habitus – un modo di essere più che un mestiere. Però negli ultimi tempi sto scoprendo l’importanza di preservare la mia identità di persona, indipendente dalla mia attività di scrittore. Avere un’ossessione è una cosa molto romantica ma per niente sana, e ho cominciato a capire il valore di stare con i miei amici, i miei genitori o la mia ragazza senza pensare per tutto il tempo al libro che sto scrivendo, sacrificando ogni altra cosa a quello. Non voglio fare la fine del capitano Achab, appeso alla balena bianca con il suo stesso arpione. Sto cercando di trovare un equilibrio tra la scrittura e le relazioni e mi cogli nel bel mezzo di questo percorso. Insomma la risposta è: fino a poco tempo fa ti avrei detto che la scrittura rappresentava il nocciolo, la parte più profonda e sincera di me; adesso non mi sembra più una bella cosa.

Quando hai iniziato a scrivere? Non intendo cose del tipo: «Sai, a otto anni ho scritto il primo tema e lo considero il mio primo romanzo…». Voglio dire: quand’è scattata quella cosa, quel meccanismo consapevole per cui adesso puoi dire, appunto, che la scrittura ti rappresenta come uomo?
Ho cominciato a scrivere racconti verso i 18 anni. Non mi piace chiamarla vocazione, forse proprio perché sto cercando di arginare la scrittura e riportarla in determinati confini. A quell’età mi sentivo un incompreso, mi pareva che nemmeno le persone più vicine mi conoscessero davvero. Ero timido e solitario. Così raccontare sulla pagina quello che sentivo è stato come prendere la parola e gridare al mondo chi ero.

Che tipo di rapporto hai con la scrittura? Può essere in qualche modo legata a uno stato d’animo? Oppure è una cosa che sta lì e che puoi svolgere, allo stesso modo, in qualsiasi momento?
Nelle Piccole virtù, Natalia Ginzburg sosteneva che quando siamo tristi tendiamo a scrivere di ricordi, mentre quando siamo felici lavoriamo meglio con l’immaginazione. Credo anch’io di funzionare così. Se rileggo i miei vecchi racconti ti so dire con precisione come mi sentivo mentre li scrivevo: ho i miei racconti felici e i miei racconti tristi. L’unico stato d’animo davvero pericoloso è la depressione, perché quella è la morte delle parole. Ma se la scrittura diventa un’abitudine è un’attività trasversale agli umori, nel senso che ne è condizionata ma non per questo si interrompe: io cerco di scrivere ogni mattina e mi capita di sentirmi annoiato, eccitato, stanco, afflitto dal mal di testa oppure in gran forma, assillato dalle bollette da pagare o con la mente sgombra da preoccupazioni, e lo faccio in ogni caso, e la cosa sorprendente è che lo stato d’animo non influisce molto sulla qualità della scrittura. Mi è capitato di scrivere ottime cose con un umore schifoso, e viceversa.

Funziona così da sempre? Come l’hai addomesticata, la scrittura, come le hai preso le misure?
Non ci ho preso le misure. Se ci avessi preso le misure, potrei dire “ora mi siedo qui, lavoro due o tre ore e scrivo una buona pagina per il mio racconto”, come succede ai mestieri che non hanno a che fare con la creazione artistica. Invidio molto quella calma, quella forza che viene dal saper fare un lavoro, conoscere tutti i gesti necessari, poter prevedere il risultato finale e continuare comunque a trarne piacere. Come un muratore che dice: ora metto una pietra sopra l’altra e costruisco una casa a regola d’arte. Io quello stato non lo conosco. Sento ogni volta di affacciarmi nell’ignoto e mi porto dietro un grosso carico di ansia e paura, benché l’esperienza di questi quindici anni mi aiuti a tenerle sotto controllo. Ma non penso di avere addomesticato alcunché.

Ti è mai capitato di sentirti limitato nella quotidianità delle cose per via dello scrivere? In altri termini, hai mai sentito una certa difformità tra qualcosa di anche molto banale che ti stava accadendo, e qualcosa che avresti potuto/voluto scrivere a riguardo?
No. Non sono uno di quegli scrittori che vedono una scena per strada, vanno a casa e la inseriscono in un racconto. Né lo faccio con i personaggi. Credo nella necessità della distanza di cui parlava Henry James, e ho scoperto di avere un tempo di gestazione, tra le cose vissute e le cose scritte, di una decina d’anni. In questo momento sto scrivendo di cose successe nel 2002, usando luoghi e persone di allora. Mi sembra che questo tempo serva a fare pulizia di un ricordo, come una pietra levigata e lucidata dalla corrente di un fiume. Penso a Hemingway, che ha sempre scritto storie tratte da episodi della sua vita, ma aveva bisogno di guardarli da lontano per raggiungere quella sua straordinaria limpidezza: dieci anni per Addio alle armi, trenta per Festa mobile.

Qual è, oggi, lo spazio per la parte privata del tuo scrivere (non so, qualcosa tipo diario, o comunque cose che non leggerà mai nessuno) e quello riservato alla parte pubblica (anche solo tenere un blog)?
Ogni tanto ho pensato di tenere un diario, ma mi sono accorto che ne ho già uno. Io scrivo a mano su grandi quadernoni che poi conservo, pieni di prove, correzioni, appunti e riscritture, e sfogliare uno di questi quaderni mi riporta indietro nella vita proprio come farebbe un diario. Dentro ai quaderni c’è la parte privata della mia scrittura, ed è sempre sporca, imprecisa, sovrabbondante, ma pure molto intima e urgente, qualcosa che non farei mai leggere a nessuno.

Sapresti descrivere la tua personalissima lingua, quella in cui hai scritto finora?
No, perché la sto ancora cercando. Vorrei che fosse molto semplice e molto precisa, e che sembrasse naturale come la lingua dei bravi narratori orali.

Quanto (e cosa) del tuo scrivere può appartenere agli altri?
Be’, vorrei che la mia scrittura arrivasse ad appartenere agli altri quanto mi appartengono i libri che amo come lettore. Quando mi pare che siano stati scritti proprio per me, e che nessuno al mondo possa capirli meglio di come li capisco io. Se anche un solo lettore si sentisse così con uno dei miei racconti, avrei raggiunto il mio scopo di scrittore.

Pensi mai di smettere? Intendo smettere e non pensarci più davvero, neppure una blanda tentazione – potrebbe essere tipo cambiare città, lavoro, abbigliamento, amicizie, tutto insieme, di colpo.
No.

Adesso scrivi tu una domanda per me.
Qual è il racconto che hai riletto più volte nella vita?
Direi tutti i racconti di Pesca alla trota in America, di Richard Brautigan. Si tratta di un romanzo in forma di pezzi brevi, se vogliamo, del resto Brautigan nel breve era formidabile.

[Questionario #2: Luciano Pagano] [Questionario #4: Vito Antonio Conte]