Caspita, se non sembra un participio passato. I padri della lingua non lo indicano, distratti – ma dev’esserci, dev’esserci anche l’infinito: “contarre”, si direbbe. All’infinito, del resto, si ambisce in fatto di contatti. Cosa che ha peso più dell’aria: social network, amicizie, lavoro, viviamo ramificando, arrotolandoci nella rete di contatti. L’etica stessa diviene etica del contatto: devi avere il contatto giusto per sfondare il muro dell’indifferenza – divina o meno, che importa, il divino è morto proprio perché non ha saputo rinnovare la sua rete, viene il dubbio.
Perciò io parlo di participio passato, se non dall’infinito “contarre”, allora val bene “contrarre”. Poiché i contatti si contraggono, quasi come contratti, appunto, o virus; una volta iniziato il giro, l’azione è virale, non si ferma, sei nel circolo e continui a girare; quando la trottola si ferma, osservi chi hai davanti, chi ti è toccato in sorte; e non è detto che sia uno più su di te; in verità l’etica del contatto non ha solo gerarchie, ma umori; può ben capitare che chi stava su fino a ieri oggi stia giù; e tu che ti ci sei affidato puoi ben dirti perduto con lui.
A guardare con attenzione, però, il “contatto” potrebbe derivare da “contare”: più contatti, più conti. E dunque: più contatti, più peso avrai, lo avranno le tue parole, le tue paure persino. Se sei solo in una stanza a invocare la fine del mondo, la fine del mondo non ha senso; coi contatti giusti, “la fine del mondo” agguanta virgolette, ci si appiglia, tu stesso diventi citazione, leggenda, puoi arrivare fin lassù, sull’Olimpo da cui potrai brindare – finalmente! – alla “fine del mondo”, insieme ai tuoi nuovi, infiniti contatti (Martini? Pesca Lemon? Aperol+Prosecco?).