Il titolo del mio terzo libro è Il corpo estraneo. In giro per Internet ci sono già scheda, copertina, ecc. A breve pubblicherò tutto anche qui, come dev’essere. Adesso però ho bisogno di dire un paio di cose, dunque di ricapitolare – meglio, nel mio caso: ricapitombolare.
Il corpo estraneo esce ad aprile per Caratteri Mobili, sarà lungo poco più di cento pagine ed è stato scritto in scioltezza sul finire del 2010, mentre andava in stampa il mio secondo libro ed ero ancora in giro a (rap)presentare il primo.
L’idea per questa tragedia on the road mi ronzava in testa già da qualche anno, le atmosfere pure, ne ho già parlato in passato su questo blog e adesso non voglio aggiungere troppi particolari sul racconto in sé. Per i due brevi video che ho messo in giro ho scelto un taglio abbastanza, come dire, intransigente, senza immagini, fatta eccezione per alcuni dettagli dell’illustrazione di copertina (di Giuseppe Incampo). Si tratta, in un certo senso, di due estratti del romanzo in formato video.
Come ho spiegato nei ringraziamenti finali (che sono sempre: ringraziamenti, debiti e coincidenze, forse la parte più dolce e difficile di un libro), scrivendo Il corpo estraneo ho allontanato da me, senza troppo accorgermene, una certa stanchezza, una certa abitudine a stati d’animo che alla lunga fanno inceppare quei meccanismi in cui, col tempo, finisci col credere poco. Mi pare evidente e banale che se qualcosa non ti prende per intero, allora non funziona – provo a fare qualche esempio: è opinione piuttosto diffusa che il mondo della cultura, che la poesia e che in genere la superficie delle cose abbiano sempre a che fare con la bellezza. E che la bellezza possa essere salvifica. In questo libro devo invece aver scritto da qualche parte che la bellezza, di per sé, non significa molto; e che è salvifica solo se vissuta per intero (e in tempo). In questo libro ci si salva solo in mezzo a un’immensa crudezza. Forse solo chi è in grado di scovare e scegliere la bellezza in mezzo a un mondo spietato e subacqueo, fitto di apparenze, può salvarsi. Ma non c’è bellezza oltre la morte (sia biologica che psichica). Oltre la morte c’è, forse, solo la grazia; ma fin qui ho ripetuto troppe volte la parola bellezza e non solo, così ripetendo, ho rischiato di sciuparla; ma di certo mi sono sollevato pure dal diritto di parlare di grazia.
Adesso devo tuttavia specificare che il libro ha più livelli di lettura. E questa è una caratteristica che lo avvicina agli altri due che ho scritto, anzi: credo di aver tirato su una trilogia, involontaria, del niente. Dico involontaria perché mentre la scrivevo non avevo certo un piano: ma battevo comunque un percorso che, pur scoperto un passo alla volta, è stato lo stesso per anni e portava alle pareti (estive, sempre pronte a bruciare) del mio stomaco. Ho però raccontato poche volte di me: sono stato forse solo l’occhio, a volte stanco, altre attento, altre ancora allucinato, attraverso cui guardare. Sono stato un corpo in mezzo ad altri corpi, e quello era l’unico mezzo (di trasporto, anche solo emotivo) utile per attraversare quello che ho attraversato finora. Avevo la macchina da presa, per dire, sin dal primo libro, l’unica che potessi permettermi. Non poteva essere altrimenti, no?
Ora, tornando ai diversi piani di lettura: Sono un ragazzo fortunato, raccolta di racconti che compongono un mosaico che fa evidentemente il tifo per la fantasia, può esser letto come un inno postumo, scritto in contumacia, al surrealismo, alla patafisica; oppure, più semplicemente, come una serie di storie d’amore destinate al marcio e che in qualche modo sopravvivono, di tanto in tanto, come un pesce che si dibatte appena fuori dall’acqua. Per me rimane un’arca, quel primo libro, su cui alcuni personaggi si sono messi in salvo dal niente che è la realtà-per-quella-che-è; per fuggire così in una qualche dimensione parallela a me a tratti tuttora ignota.
Con La Passione allora ho raccontato, per quel che mi riguarda, chi non è salito su quell’arca, chi è rimasto a terra. Ho raccontato il niente della mia provincia, e non poteva essere altrimenti. Ma avevo in testa la provincia americana e ho usato come scenografia le elezioni del 2009, la cui eco locale ancora rimbomba nella politica nazionale. Era un libro ad alto budget emotivo, ambientato, in fin dei conti, nella lingua: la lingua che non si fa guida di alcunché, che è festa solo di se stessa.
Così con Il corpo estraneo ho indagato il millimetro. Non mi interessa dire che si tratta di fiction pura: per me tutto è rappresentazione, qualsiasi cosa venga strappata all’esperienza reale per essere impressa su carta o pellicola lo è. Però l’impressione è quella del mio primo romanzo vero e proprio: con cui, dicevo, ho indagato il millimetro, ho acciuffato il minuscolo ingranaggio che potrebbe aver agito indisturbato tra i rimasti a terra de La Passione e che, senza alcun brandello d’illusione, si è fatto niente, per intero e fino all’ultimo, senza partecipare ai riti tribali della nostra democrazia. Ma qui dico: fino al penultimo. Perché Danilo Dannoso ha un sussulto. Nel finale de Il corpo estraneo, che è un omaggio – inevitabile – a Una questione privata di Beppe Fenoglio, succede qualcosa che io non so. Non so tutto di Danilo Dannoso (come non so poi molto di Ludovico Brachini di Sono un ragazzo fortunato), com’è giusto che sia, perché quello che un autore non sa dei suoi personaggi è spesso la parte più oscena di quel che si può dire o raccontare. Ma in quel che non so di lui e in quello che accade nel finale de Il corpo estraneo c’è forse una speranza, un cerchio che si chiude, non so se bene o male (anche una tragedia può contenere la speranza, che è molto più di un semplice insegnamento morale). Nell’indagine e nell’agire della tragedia del singolo ho immesso, forse ripescato, l’antidoto al niente fin qui descritto. Nell’agire dell’individuo, per quanto apparentemente immorale, ho trovato la risposta che già conoscevo: se devo credere in qualcosa, scelgo l’uomo, il gesto individuale, muto e dignitoso, che arriva dopo il silenzio di strade bagnate e battute a casaccio per anni. Non credo nelle moltitudini, anche se sono capaci di commuovermi, credo però all’incontro: e quello si fa tra individui, e a volte è un miracolo.
Tuttavia anche ne Il corpo estraneo i livelli di lettura sono molteplici: c’è la scrittura smorta di un vecchio professore acciaccato e furbo, c’è il desiderio mutilato dalla dipendenza, c’è una storia d’amore molto forte, composta soprattutto di solidarietà e fiducia; e c’è ancora la politica, il Paese che crolla come un’eterna ed estrema ed estenuante provincia, e poi un certo modo inutile e dannoso di fare cultura. C’è una certa visione del potere, che è sempre masturbazione e ha in sé le avvisaglie e le motivazioni del proprio crollo. C’è una certa visione dei rapporti tra individui: per cui quando sono composti di potere e controllo hanno poco a che spartire con la bellezza (e con la grazia?).
Comunque.
Con questi tre libri io ho chiuso un cerchio.
Scrivo questo post all’una e cinquantuno di mercoledì 7 marzo 2012: quando Il corpo estraneo sarà diventato di carta, tra qualche giorno, l’autore dei tre libri qui citati non esisterà più. Il che, a parte che scrivere in quella maniera, e di quelle cose, non ha più senso per quell’autore, non so bene cosa significhi. Forse lo scoprirò, e magari troverò anche il modo più appropriato per raccontarvelo.
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Nota dell’11 marzo 2012: Il mio primo libro era dedicato a una misteriosa quanto ambigua gang dei senza coda. Credo che i senza coda fossero proprio i personaggi che non si sono salvati tra le pagine di quei miei primi racconti, i rimasti a terra che, come ho detto, hanno poi animato le pagine de La Passione. E La Passione era invece dedicata a un singolo individuo; quell’individuo che poi, come ho tentato di spiegare fin qui, è l’unico millimetro indagabile attraverso le vicende de Il corpo estraneo. Ed ecco perché oltre ai ringraziamenti, anche la questione della dedica, per me, è questione sempre assai spinosa (come sanno tutti i miei editori).