Da quando ho scoperto la funzione “Ricordi” di Facebook non riesco a farne a meno. Per uno come me, fissato con la forma, rileggere vecchi post comporta sempre il rischio di imbattermi in refusi o in concetti espressi un po’ troppo oscuramente. Ogni tanto però ritrovo delle cose che mi stupiscono (e non so bene perché). Tipo questa che segue, risalente al 16 novembre 2016.
*
Parole. Quand’ero adolescente la parola era “progresso”. Se ci penso adesso era come avere uno specchio che rimandasse l’immagine di qualcos’altro che non fosse la tua faccia. Forse era la tua faccia da adulto, a fare il lavoro di tuo padre o quello per cui avevi studiato. C’era l’idea di una linea, sottile, che disegnava comunque una salita facilmente percorribile. Insomma, nessuno sapeva davvero cosa fosse il progresso, ma in fondo ci si credeva, non lo si metteva in discussione. Forse sbagliavamo.
Adesso ho come l’impressione che “progresso” sia stato sostituito con “cambiamento”. Non ho un’immagine mentale per questa parola, forse perché pronunciata un po’ da tutti, da destra a sinistra (a volte sembrerebbe quasi una sfumatura, socialmente più accettabile, della vecchia “rivoluzione”).
L’idea che ho, comunque, è questa: il progresso è una proiezione in avanti – un miglioramento indiscutibile – di una società a partire da una base accettabile, oltre che condivisa. Il cambiamento invece ti dice che quella base non esiste, perché le cose non funzionano. Per niente. Per cui bisogna cambiare. Ma cambiare cosa, e come?
Tutto sommato l’idea di progresso, per quanto illusoria, presupponeva una visione o quantomeno una discussione sul futuro. Nel cambiamento invece la visione, se c’è, riguarda il presente o forse addirittura un passato-presente (cioè un presente che ci sembra eternamente vecchio, da demolire all’istante), di conseguenza l’unico progresso possibile al suo interno non può che essere quello che modifica esclusivamente l’esistente – non si sa in quale direzione – per poi volerlo cambiare di nuovo, ancora e ancora.
Non ne ho idea.
Il cortocircuito di questo ragionamento è che si finisce col parlare del progresso, dell’idea che ne avevamo, con tono nostalgico.