Un vecchio, piegato sul bagnasciuga in una giornata di splendido sole, è preso nel tentativo disperato e un po’ goffo di rimettersi in piedi o tornare seduto.

Una nave fantasma, del tutto reale, attracca o forse è ferma da sempre su un molo deserto, sullo sfondo di cielo e mare perfettamente azzurri, perfettamente immobili.

Ancora, una donna sulla sessantina, frangia cotonata e fronte alta come in un disegno di Jack Kirby, guarda sospettosa o semiaddormentata nell’obiettivo.

Un’altra donna allo specchio, plastificata in una postura a suo modo elegante, pettina l’assurda acconciatura da matrimonio nascondendo il riflesso suo e dell’uomo cui dà le spalle, probabilmente il fotografo.

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Il fotografo è Piero Percoco, e quelle che ho provato a raccontare sono alcune delle foto protagoniste del suo libro Prism Interiors, pubblicato da Skinnerboox con l’editing di Jason Fulford. Il libro contiene un altro libricino – Secondary Qualities – ed è accompagnato da una mostra, nel corso della quale viene proiettato This is the way, step inside, video di una ventina di minuti che fa da making of della pubblicazione. Il filmato è composto da video verticali in bassa risoluzione, con tutta probabilità delle Instagram Story, e da altri orizzontali e più definiti, in un montaggio alla Blob con sottofondi musicali degni di Twin Peaks o The tree of life di Terrence Malick. Non cambia, rispetto al tono del libro e in generale rispetto alla fotografia di Piero Percoco, l’apparente assurdità dei soggetti ritratti – dettagli di mani anziane che limano dentiere, bisce morte colonizzate da eserciti di formiche – in opposizione all’altrettanto apparente ordinarietà dei luoghi: per la maggior parte la Puglia, e in particolare Sannicandro, provincia di Bari, dove Piero Percoco è venuto al mondo nel 1987, e dove attualmente risiede con un certo orgoglio.

La questione geografica, come vedremo, è fondamentale nella fotografia di Piero Percoco: fondamentale proprio perché la svuota di significato. Prima di tutto, però, è importante sottolineare la forza narrativa di questi scatti. Una forza che sulle prime può sfuggire: nell’apparente immobilità della cornice non accade niente, o forse la cosa più importante è appena accaduta o sta per accadere (ed è quindi invisibile al “lettore”). Tutto è sospeso, e questa sospensione sembra ricordarci in tutti i modi che stiamo osservando una fotografia, uno schermo che ingabbia, comunque la si voglia vedere, degli oggetti. Solo i colori vividi, spesso piatti (come nella confezione di Prism Interiors, del resto) sembrano vivere davvero in queste foto, insieme pure a una certa regolarità geometrica, relegando così i soggetti – a meno di non considerare anche i luoghi come tali – a pura rappresentazione, messa in posa. A un primo sguardo, insomma, ci si potrebbe fermare alla patina ironica, vagamente weird, kitsch o glam a seconda dell’occhio che osserva le fotografie di Piero Percoco.

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È però guardandole in successione, sfogliando Prism Interiors e soprattutto l’account Instagram The rainbow is underestimated, che comprendiamo che le cose stanno in modo diverso (non è un caso che anche nel libro le foto abbiano formato quadrato). Ogni scatto è un passaggio verso quello successivo e quello precedente, una sequenza di microracconti che riferiscono di una storia più ampia che è, appunto, una storia a tutti gli effetti. Tutti i soggetti – quindi anche i luoghi – stanno accadendo proprio perché immobili; la composizione di colori accesi ne esalta la vitalità. Pian piano, scorrendo le foto, ci ambientiamo in questa storia, ne assorbiamo il codice linguistico. Se c’è del perturbante, dell’insolito o dell’inguardabile, alla lunga non è per quello che vediamo, ma per quello che appunto è appena accaduto o che deve ancora accadere: e che ovviamente non sapremo mai.

Il ragazzo stretto tra due colonne di cemento verrà schiacciato, o si sta solo arrampicando? Il signore che dorme col naso all’insù è morto, oppure si sveglierà dopo che la foto sarà stata scattata? L’uomo che sembra cantare con tutto se stesso finirà la sua performance con un applauso o con un colpo apoplettico?

Quanto al glamour, al fascino scintillante di questi scatti sempre luminosi anche quando raccontano la penombra, occorre andare alla radice dei due termini: sia quello scozzese – glammer – che quello italiano – fascĭnum – indicano l’incantesimo, l’opera di stregoneria. Gli uomini, le donne, gli animali e i luoghi rappresentati da Piero Percoco sono sia l’oggetto di un incantesimo che il soggetto; nel primo caso perché sono catturati  e trasfigurati dal racconto fotografico in modo che siano sempre loro, ancora loro, senza più esserlo; e nel secondo perché a loro volta, rappresentati dalla peculiare lingua fotografica di Piero Percoco, essi seducono, incantano chi li osserva, rapito tanto dalla successione che dalla singola foto.

Incantesimo che è evidente soprattutto nel caso dei ritratti umani, in cui Piero Percoco dimostra un talento incredibile – non solo fotografico: non è poi così scontato che il soggetto si fidi a tal punto da lasciarsi fotografare nei momenti in cui agisce se stesso a un livello tanto intimo da schiudere e manifestare anche pubblicamente la sua natura. La capacità di Piero Percoco, insomma, è quella di stabilire una relazione e poi di meravigliarsi, di cogliere e portare alla luce gli aspetti ora minimi ora persino grotteschi dell’incessante ripetersi di uno spettacolo quotidiano, praticamente familiare.

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Sotto questo profilo, dicevo, è fondamentale la provenienza geografica di Piero Percoco, è interessante cercare il suo sguardo in giro per una delle regioni, la Puglia, più sovrarappresentate e spettacolarizzate in fotografia, quantomeno nelle zone più turistiche; una regione, specie quella vissuta nei paesi come Sannicandro, che poi resta anche paradossalmente marginale – in quanto periferia, più che meridione in senso classico. Involontariamente i soggetti di Piero rispondono alla questione: quanto influisce la consapevolezza che ciò che si sta raccontando potrebbe ricevere meno attenzione, a prescindere dal proprio talento nel raccontarlo, per ragioni che in fondo poco hanno a che vedere con la dignità di quello che si sta rappresentando? E ancora: quanto incide sulla tua capacità di raccontare, alla lunga, la consapevolezza di non vivere tanto al sud – la cui rappresentazione in termini di cliché, positivi o negativi, riscuote sempre un certo successo – quanto ai margini di quello che accade altrove?

La fotografia di Piero Percoco riesce a saltare a piè pari tutti gli interrogativi su autenticità, cliché e plastificazione turistica di certi luoghi, come pure quelli sulla marginalità, per produrre una visione altra dei posti che racconta. E lo fa in parte grazie al mezzo principale con cui (e in cui) si propaga, cioè Instagram, e in parte, forse soprattutto, per un’altra ragione.

Di fronte a uno dei tanti volti anziani, pesanti, eccentrici e in un certo senso naturalmente espressivi delle foto di Piero Percoco, volti che abitano sfondi ed eventi che sono paninari al neon, anniversari di matrimoni di vecchi zii o spiagge popolari, il punto non è tanto chiedersi quanto di antico o tipicamente pugliese sopravviva nella scintillante rappresentazione dello sguardo contemporaneo – uno sguardo che guarda e allo stesso tempo è sempre guardato – ma quanto inevitabile stridore, non solo estetico, ci sia nelle vite di ognuno, nel XXI secolo, a qualsiasi latitudine si viva.

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I volti e i luoghi di Piero Percoco sono gli stessi che si potrebbero trovare in molte altre periferie europee, forse anche in giro per il mondo. L’autentico e il posticcio sono strapazzati dal globale, e se per Kundera il kitsch era grossomodo la negazione assoluta della merda, il nostro occhio che tutto vede su Instagram fa sempre più difficoltà a separare la “merda” da ciò che è accettabile, finalmente rappresentabile con dignità, a volte addirittura con stupore. Di certo senza più scandalo.

[Questo articolo è apparso per la prima volta su Minima&Moralia il 9 novembre 2018.]