Non percepisci il vuoto, il salto, l’abisso? Invece è come svoltare l’angolo, o al massimo scendere (o salire) un gradino. A volte è solo un locale, nemmeno tanto nuovo, in cui rifugiarsi a notte fonda passeggiando sulla stessa strada che percorri ogni giorno. L’anno nuovo è una convezione, dicono, e così le aspettative.

Hai mai sentito qualcuno dire: “Quella data cosa ha atteso le mie aspettative?”. Niente, sembra che esistano soltanto per essere disattese: ti presenti a un appuntamento per subire la buca ampiamente presentita.

Buca: siamo di nuovo al pertugio, alla discesa, al salto nel vuoto. E se il nuovo – incluso anche l’anno – fosse un ponte? Un ponte di luce, razionale, per attraversare l’abisso. Dalle rovine della città vecchia, dalle sue case abbandonate in fuga (il terremoto? la guerra? la noia?) a quella nuova, che immaginiamo sempre accesa a giorno, fiera e moderna, brulicante di vita.

Ci sono momenti in cui più divertente è distruggere; in cui è lecito, oltre che giusto, distruggere. Altri invece in cui è obbligo morale costruire. Ma l’essere morale è così relativo, non è vero? Abbiamo mangiato carne di animali morti, poi quella dei nostri simili, abbiamo pensato ai bambini come adulti in miniatura e per questo li abbiamo portati in miniera. Fondiamo obblighi fuori da ogni epoca, allora, obblighi atemporali, amorali, amorevoli: perché non siano più obblighi, ma cimenti.

Una volta ho conosciuto un signore così anziano che pareva eterno, anche lui col suo cimento: ubriacarsi di grappa dal 31 dicembre fino al 3 o al 4 di ogni nuovo anno. Era di quegli uomini smilzi che devono avere qualche sacca nascosta, tra l’esofago e il retto, dentro cui pare confluire tutto l’alcol tracannato: alla fine era perfettamente lucido e consapevole, di anno in anno, che l’anno era finito. La mattina del 5 gennaio lasciammo il rifugio in cui avevamo dormito e bevuto per giorni e c’incamminammo tra i sentieri, sullo sfondo la grande montagna incrinata e ingrigita dal ghiaccio. Prendemmo per un sentiero senza neve, e in una vallata incontrammo un basso muro di pietra. Correva per qualche centinaio di metri, di fianco a betulle e abeti, interrotto poi da una cancellata arrugginita e piegata come fosse stata battuta per eoni dal martello di un pazzo: fu sufficiente scostarla appena per addentrarci nel vecchio cimitero. “La morte di pietra è come l’acqua” disse il mio compagno d’anno nuovo. “Se c’è, testimonia che c’è stata anche vita, e vedrai se ritorna.” Sulle lapidi leggemmo i nomi di uomini, donne e bambini che sarebbero potuti tornare al mondo da un momento all’altro – odore di cenere, dove si satura la vita – perciò non disturbammo oltre e ci allontanammo verso il bosco. Camminando tra i larici pensai che a quel punto sarebbe dovuto accadere qualcosa per dar fondamento al racconto: forse avrei dovuto strangolare il vecchio, forse lui avrebbe dovuto scuoiarmi vivo con la lama che portava legata alla cinta. Con questi pensieri lo seguii oltre gli alberi, fino al pianoro dove la vista si apriva su una vallata imbiancata, al centro un cuore di ghiaccio che un tempo era un lago (lo sarebbe stato di nuovo). Da qui la montagna era vicina, ripulita di ghiaccio o radici: solo un muro di pietra grigia e grezza, tanto verticale da far smarrire ogni orientamento. Su quel dorso, in risposta all’aiù di non so quale rapace, vidi prendere forma cinque o sei capre alpine, le corna mezzo ricurve mosse appena nell’aria per tenere un equilibrio che non esisteva. Per loro salire o scendere è uguale, pensai, come nello spazio più lontano e profondo. “Stamani ero un fanciullo…” disse il vecchio, ma non continuò la frase. S’incamminò verso quei maestosi animali: solo che adesso io non li distinguevo più, mimetizzati ancora nella roccia della montagna. Il patto col mio compagno era questo: non l’avrei seguito nell’arrampicata, sarei tornato indietro. Col rischio di perdermi nel bosco, è vero: ecco l’anno nuovo, conclusi, e mi avviai in cammino.