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(Fonte foto: Frizzifrizzi)

Foto come questa quassù ne abbiamo viste tutti, tra ieri e oggi; sappiamo tutti cos’è successo a Bologna.
Strano allora pensare che tutte le storie di questi anni siano soprattutto storie di muri; anche quelli innalzati come barriere atte a separare gli uomini da altri uomini, vengono poi dipinti da qualche street artist che ne fa opera d’arte globale e virale.
E questa del graffito, del disegnare ovunque si possa, è davvero una storia vecchia quanto l’umanità intera.

Quello che ieri ha fatto BLU a Bologna, però, va in un’altra direzione, da un lato richiamando la solita vicenda del jazz e del blues rubati ai negri per dare ai bianchi (come tutto ciò che è prodotto nei sotterranei e nei vicoli delle catacombe di qualsivoglia minoranza); e da un altro assumendo l’aria, oltre che un di ulteriore passaggio artistico nella meravigliosa street gallery di BLU, di un messaggio – un messaggio, da far pervenire a tutti i costi, e con una certa urgenza.
Già, ma a beneficio di chi?

Dubito che i vecchi parrucconi massoni (o quel che sono) che volevano strappare le opere di BLU per farne ciarpame da museo possano intendere davvero le motivazioni di quel gesto; è gente, quella, capace di prendere persino un fatto simile come ulteriore provocazione artistica, e se non fosse che si tratta di atto immateriale c’è da scommetterci che ne farebbero, anche di questo, una robetta da ricchi intenditori, chiusa sotto teca a solleticare l’acribia e i genitali di qualche vecchio marpione.

Mi chiedo allora se non sia piuttosto, questo gesto di suicidio artistico, un messaggio che BLU (con l’aiuto di molti bolognesi, va detto) ha confezionato anche e soprattutto a beneficio di colleghi e, perché no, coetanei tutti.

Ovvero: ci sarebbe davvero da riflettere sul fatto che non valga sempre la pena esser disposti a tutto pur di (completare a proprio piacimento – io ci metterei: farsi riscrivere un romanzo pur di pubblicarlo; farsi ridisegnare il sound di un disco pur di avere un’etichetta); che forse, e dico forse – e lo dico restando convinto che il più intenso valore politico veicolato da un’opera sia soprattutto l’opera in sé – la dignità fa parte del pacchetto, e non c’è ricatto legato alla miseria di quest’epoca che sia sufficiente a giustificare scelte diverse.

Esserci a tutti i costi, dire sempre di sì perché bisogna pur campare: sembra che questi assunti siano penetrati a tal punto nel nostro corredo biologico che è da pazzi fare diversamente; e invece BLU, con questo gesto, ci fa respirare mostrandoci altro. Un altro che equivale a zittirsi, ad annichilire l’opera, se necessario. Un gesto che nell’Oscuro Occidente di inizio millennio ha un che di irrazionale e inaccettabile: non fare, o addirittura togliere una volta che si è fatto.

E non è questione d’esser duri e puri: il fatto è che BLU sa che nell’opera più felice, anche se non c’era alcuna intenzione iniziale di raffigurarla, comparirà comunque anche la nostra schiena. E a quel punto, anche una volta rimossa quell’opera, tutti avranno saputo qual era la nostra postura.

(A proposito di posture: Bologna torna in posizione eretta. Una città che tanto ha dato a tutti, prossimi e lontani, in termini d’arte, libertà espressiva e anarchia; e che da qualche tempo sentivamo nominare soltanto per sapere quanto avesse perso proprio su quei terreni.)