Hector Luis Belial è un giovanissimo scrittore e ha prodotto due romanzi con Las Vegas Edizioni. Il primo, Saxophone Street Blues, l’ho vinto scrivendo una sua biografia immaginaria. Difatti Belial si occupa principalmente di finzioni, perciò, spiega, perché la finzione non dovrebbe abbracciare anche la sua vita? Saxophone Street Blues è un pulp scorrevole e frammentato (scorrevole ma frammentato? che ne so io?), e racconta soprattutto di moderne dipendenze. Per questo ho deciso di interrogare il giovane Belial (e di mixarlo qualche post addietro, QUI).
Cominciamo dal genere: il pulp era l’unico modo per rappresentare la vita moderna secondo El niño? E se sì, perché proprio il pulp? In fondo SSB è quasi un saggio sulle dipendenze nella società contemporanea, che tu hai scelto di infarcire di citazioni e atmosfere da fine secolo scorso (proprio come il dj del romanzo, Norman Moog, fa con la sua musica).
El Niño si vede come una sorta di uberbansch, considera l’assassinio come una forma di elevazione sociale ed intellettuale, un modo per porsi al di sopra delle leggi, delle convenzioni. Un’elevazione che, paradossalmente, passa per una momentanea, controllata regressione alla bestialità; la violenza, dal suo punto di vista, è contemporaneamente il prodotto più alto della società contemporanea che l’unico antidoto contro di essa.
Dal mio punto di vista, la scelta del genere pulp – non mi rifacevo, in SSB, all’esperienza dei “cannibali”, ma direttamente al cinema americano degli anni ’90 – rispondeva alla ricerca di un linguaggio diretto per colpire il lettore alla maniera in cui Buñuel mutilava l’occhio dello spettatore in Un chien andalou. Oggi non è facile provocare uno shock nel lettore; la violenza e la pornografia, ormai sdoganate e parte del nostro quotidiano televisivo, hanno perso la loro carica sovversiva. Il pulp, se non altro, riesce a giocare con questi elementi senza la lagnosa ipocrisia dei telegiornali. Ci permette di ridere di una testa che esplode, ed è sempre una risata liberatoria.
Secondo il personaggio Freddie Dvorak, se a Gregor Samsa capitasse oggi di svegliarsi e ritrovarsi nei panni di un enorme scarafaggio, finirebbe per godere della sua nuova condizione, circondato da tv, Internet e cibo cinese da ordinare al telefono. E poi: Dvorak ha davvero finito di scrivere 100 Dialoghi per aspiranti suicidi?
Lo stesso Dvorak ha trovato nella tecnologia un complice per trasformarsi nell’aberrazione di se stesso, e nella scrittura, il miraggio di una redenzione impossibile. 100 dialoghi per aspiranti suicidi era un’idea che avevo effettivamente iniziato a sviluppare prima di SSB, ma credo di essermi fermato prima di arrivare a dieci!
Dvorak è un hikikomori: cioè un moderno recluso, finto eremita. Hai una esperienza personale, più o meno diretta, in fatto di hikikomori? Ho idea che sia un fenomeno che può interessare in parte anche molta gente “insospettabile” e che sia comunque poco considerato, in Italia.
No, non posso dire di averne un’esperienza diretta; è un fenomeno che ho scoperto sulle riviste, ma che mi ha sempre impressionato. Mi sembra tanto un sottoprodotto dell’abuso di tecnologie che una reazione di disgusto per la società, entrambi temi che ho cercato di esplorare nel romanzo. Negli anni ’90, credo ancora più di oggi, guardavamo alle possibilità offerte dalla “realtà virtuale” con un misto un po’ visionario di speranza e preoccupazioni apocalittiche. L’hikikomori le incarna entrambe, perché da un lato offre una via di scampo alla realtà alternativa al suicidio, permette di vivere un’altra vita, ma una vita fittizia, che si nutre di continue distrazioni (internet, tv, musica, videogiochi) per dimenticare la sua natura miserevole.
Per la maggior parte, tutti i personaggi di SSB dipendono da qualcosa, soprattutto da macchine (persino Samuel Brown è fissato con una macchina, anche se intesa come automobile), e in più hanno qualcosa che manca: Norman Moog è cieco e sostanzialmente dipende dai macchinari che usa per suonare. Anche nel tuo racconto Babel, la Torre di Babele diventa metafora di una dipendenza che non può arrestarsi nemmeno davanti a Dio.
Sì, in definitiva i miei personaggi si sentono liberi solo quando possono dedicarsi per tutto il tempo che vogliono alle loro passioni; ma queste passioni finiscono immancabilmente per ossessionarli, possederli, diventano effettivamente delle dipendenze. La tecnologia incentiva queste ossessioni, offrendo macchine altamente specializzate per poterle realizzare più facilmente. Ma l’origine della dipendenza non sta né nell’edonismo o nella debolezza dei personaggi, né nella tecnologia, ma nello stato di alienazione in cui siamo posti nei confronti della società.
Il dolore è bianco: a un certo punto Samuel Brown accenna a un libro dalla copertina bianca; nel romanzo è ovvio che si tratti della Bibbia, ma ti dirò che ho pensato subito a Moby Dick.
È un romanzo a forti contrasti; il nero, il colore della notte, dell’oscurità, è quasi rassicurante, perché permette di scomparire, ed è questo, in fondo, il desiderio ultimo dei miei personaggi. Ma il bianco è terrificante, ricorda un’innocenza perduta, una purezza accecante, sovrumana, insostenibile. Certo non è un caso che la balena di Melville sia bianca. È nel bianco, non nel nero, che si realizza la coincidenza degli opposti.
A un tratto citi i Beatles di With a little help from my friends: cosa significa “cantare stonando”, quando si scrive?
Quando si rompono le convenzioni, ne risulta inevitabilmente un suono stridente, difficilmente melodico, non semplice da ascoltare. Così l’improvvisazione di free jazz è più difficile del tormentone pop, non solo per l’esecutore, ma anche per l’ascoltatore – che magari arriva a pensare che il jazzista stia suonando a caso. Lo stesso vale per la scrittura; se Saxophone Street Blues fosse un romanzo con una struttura più convenzionale, con la rottura di un equilibrio iniziale, le peripezie di un eroe positivo e magari un lieto fine, troverebbe magari un pubblico più ampio. Ma io preferisco suonare a modo mio, anche a costo di suonare stonato ad alcune orecchie.