Il divagare di Federico nelle sue risposte, ad esempio, dice molto del suo rapporto con la scrittura. Così come passare da Dante al vernacolo romanesco nel giro di poche righe e pensare che entrambi gli aspetti facciano parte di quella che lo stesso F. definisce una “manifestazione dell’universo che passa per una lunga serie di simboli consueti combinati in fila sulla carta”. Ecco, Federico Di Vita ce l’ha nel sangue anche se a volte fa spallucce, anche se dovesse smettere domani (ma dice di no); in quel che scrive c’è sempre – sempre – una parte di lui, più o meno evidente, più o meno nascosta (a volte potete trovarlo persino dietro una virgola). In lui, come in altri rarissimi individui (è questa la conclusione cui sono arrivato fin qui) la scrittura è percezione del mondo e poi restituzione. Lui ce l’ha nel sangue, ma non è un dono, quanto forse un fatto di formazione, o addirittura un accidente genetico. Una cosa da cui non si può prescindere, che funziona da filtro, difesa, attacco e, prima o dopo, capacità di fare ordine, ascoltare il proprio respiro. Dopodiché si può dire e scrivere di tutto.

Cosa rappresenta di te, la scrittura?
Intanto ti dico che ti sto rispondendo la mattina del 25 dicembre. Questo forse ti dice già qualcosa. Anzi, a ben vedere te ne dice un sacco di cose… E non parlo solo del fatto che è la prima giornata “libera” dell’ultimo mese dal vagare in piedi come un criceto impazzito nel negozio di cianfrusaglie dove lavoro. Penso che ci sia anche altro dentro, roba tipo rapporto tra scrittura e tempo (che poi a vari livelli, è la chiave di volta di tutta la faccenda, il tempo dico) e tra me e la scrittura e tra me e il tempo che ci dedico. Ti rispondo nel primo tempo libero, quello più prezioso. Certo non succede sempre, ma è un buon indicatore. Poi mi pare che la mia scrittura dimostri una qualche forma di irrequietezza. C’è in una poesia di Montale, La casa dei doganieri, quel verso famosissimo nella mia testa che fa “in cui vi entrò lo sciame dei tuoi pensieri / e vi sostò irrequieto”. Ecco, i versi in effetti sono due, ma questo sciame irrequieto di pensieri che a volte si posa sulle faccende del mondo lo sento molto mio, anzi, è forse la migliore definizione che saprei dare di me, e la mia scrittura a mio avviso lo rivela. Per quanto io cerchi di renderla piana, guizzante, di quelle che incollano il lettore alla pagina (perché sì, mi piacciono i libri che mi fanno ridere e quelli che non mi vorrei staccare, e quando scrivo provo a fare qualcosa che mi piacerebbe anche leggere), si tratta di una scrittura che denota un certo tasso di irrequietezza, e di “sciame di pensieri”, e anche il lavoro stesso che uno può intravederci dietro a ben vedere lo rivela, come pure il fatto che ti rispondo alle 10 di mattina del giorno di Natale, il primo momento libero e col pensiero leggero da un mesetto a questa parte.

Quando hai iniziato a scrivere? Non intendo cose del tipo: «Sai, a otto anni ho scritto il primo tema e lo considero il mio primo romanzo…». Voglio dire: quand’è scattata quella cosa, quel meccanismo consapevole per cui adesso puoi dire, appunto, che la scrittura ti rappresenta come uomo?
La scrittura mi rappresenta come essere umano, che lusinga mi fai. Non lo so mica se è vero, penso che non sia vero mai, in effetti. Ci sono le cose che uno scrive e le cose che uno fa, e certo anche se quello che scrivi vive di quello che hai fatto be’, è un’altra cosa. Tutta un’altra cosa. In ogni modo è da un po’ di tempo (da qualche mese?) che ho la sensazione, e forse è sbagliata, che la scrittura sia un’efficace meridiana del mio percorso di essere umano, della mia maturazione come persona. (Una persona che ha perso le cuffiette e che quindi ora scrive senza musica, e invece magari adesso gli ci andava, comunque). Voglio dire, che voglio scrivere lo so da tempo, per tutto il liceo – per quattro anni e mezzo di liceo – ho pensato, nel senso che ne ero certo, che avrei fatto l’accademia delle belle arti, quella che sta a via di Ripetta, a Roma. Avevo anche parlato col direttore in persona, perché mia madre lo conosce (allora lavorava al conservatorio di Santa Cecilia, che sta lì dietro) e insomma ci sarei entrato dalla porta principale. Come pittore non ero in grado ma quel tizio era sveglio e mi aveva detto di fare un corso, ora non mi ricordo il nome, ma insomma di quelli che ti portano ad essere arredatori (la parola è sbagliata) di interni ed esterni. A quest’ora ci farei i soldi facendo un lavoro tutto sommato leggero e divertente. A quel punto ho capito che volevo fare lettere. Lettere come noto è nella Top Three delle facoltà più inutili del mondo. Avevo da anni un’autentica ossessione per Dante, sapevo canti sani a memoria (e ora questa cosa non si fa più, era un vezzo mio e di un mio amico, mica eravamo costretti – e guarda che questo la dice lunga…), e più in generale il piacere che provavo nelle ore di letteratura in classe, l’andarmi a spulciare con diletto quelle cose la sera, i lirici greci, l’impresa a sedici anni di provare a leggersi tutto Ariosto, i provenzali, l’idea di recuperare canti sani del Pulci, fare sega a scuola epperò comprarsi la mattina stessa Le operette morali e leggersele sotto il colonnato di San Pietro (sono cose che ho fatto davvero), insomma, a un certo punto mi interessava quella roba lì e ne ho preso atto. Certo ero un vero cazzone al liceo, con un amico scrivevamo poesie goliardiche, una volta ci coinvolsero nel giornalino della scuola e scrivemmo un articolo intitolato “Porca puttana me piottano l’ascelle”, che  puntualmente fu ampiamente tagliato (poi non facemmo più niente per il giornalino perché se vi diamo il pezzo migliore che abbiate mai avuto e lo mutilate brutalmente allora non vale la pena). Non ti sto rispondendo, vero? Eh lo so, è difficile dire quel giorno lì, perché non c’è, ma avevo la sensazione di voler scrivere, che il mio spirito fosse affine a questa manifestazione dell’universo che passa per una lunga serie di simboli consueti combinati in fila sulla carta, e un giorno a metà dell’ultimo anno di liceo ho deciso di fare Lettere. La conseguenza implicita (ed esplicita, nella mia testa) era che avrei voluto scrivere. Poi non ho scritto per anni. Al massimo scrivevo lettere d’amore o mail. Ma a quel punto già era andata, non lo sapevo (non del tutto almeno) ma ero già attratto dall’orbita, non stavo scrivendo ma stavo scrivendo.

Che tipo di rapporto hai con la scrittura? Può essere in qualche modo legata a uno stato d’animo? Oppure è una cosa che sta lì e che puoi svolgere, allo stesso modo, in qualsiasi momento?
Congestionato, conflittuale, di forte attrazione, un rapporto che vive di lampi, e in testi più lunghi del tentativo di mettere in fila una collezione di lampi e della consapevolezza che questo oltre a essere in qualche misura impossibile sarebbe anche sbagliato, come dire, tecnicamente. Un rapporto governato da cataratte, che monta silenzioso e passivo, e che alla fine tracima con implacabile, calma, imperiosa forza, rompe gli argini e allaga tutto. Porta relitti di barche nel centro delle città, o rende campi di grano risaie.
Poi. Sì, è legata a uno stato d’animo. Io scrivo quando sto bene. Il rischio, come dice Gino Paoli, è che quando stai bene prendi e ti vai a fare una passeggiata (o un giro in motorino, dico io), e quindi, dice lui, le canzoni si scrivono quando si è tristi, quando fuori piove. Io visto che da triste invece tendo a non fare nulla devo resistere alla tentazione di fare quello che si fa quando si sta bene, e scrivere. Che infatti è una cosa che faccio quando sto bene (ma non è la sola, naturalmente). Poi la scrittura è in qualche modo legata anche al senso del dovere, a volte, per una serie di motivi (che possono dipendere da scadenze tipo devo consegnare il tale racconto entro il tale giorno o possono dipendere da tutt’altro, fissazioni che mi si sono piantate nel cervello) io sento di dover scrivere. E il senso del dovere è una forma forte di volontà che nel mio caso entra in conflitto con altre zone di me. Ti ho risposto?

Funziona così da sempre? Come l’hai addomesticata, la scrittura, come le hai preso le misure?
Non le ho ancora prese del tutto, queste misure. A volte alcune cose le ho scritte nello stato definito da alcuni alcholic review, cioè di fronte a scadenze (quando per esempio quelle che erano mail cazzoni agli amici erano sul punto – mio malgrado – di diventare la bozza di un libretto) mi ubriacavo e mi mettevo a scrivere in quello stato, ascoltando Bob Dylan: che mi comunica una certa urgenza (e in quella circostanza era necessario, poi ho smesso, anche perché il tipo di ansia che mi trasmettevano le canzoni di Bob Dylan era produttivo ma era anche un tipo di ansia, non so se mi spiego, e poi ho idea che si creassero dei cortocircuiti semantici per il fatto che sapevo le canzoni, che sì, può essere ok, ma non volevo ancorare tutta la mia scrittura a questo meccanismo). Qui dico attenzione, è facile banalizzare. L’arte non si fa ubriacandosi (o drogandosi o in stati alterati di coscienza), e però… questo sistema da qualche parte può portare. Poi certo su quella roba ci rimettevo le mani parecchio, però non è che non saltasse fuori nulla. Del resto c’è una grossa tradizione del genere, diciamo così (da De Quincey, a Baudelaire a William Burroughs, Bukowski, ecc.). Non mi ci riconosco in questo sistema, anche se ogni tanto mi può ancora capitare di buttar giù qualcosa in quello stato, però di dire che non è un sistema non me la sento. Almeno per stappare uno stato d’animo, in una fase iniziale, può funzionare. (Del resto quelle che si chiamano alcholic review sono riviste scritte in totale stato di ubriachezza, e no, non ne ho mai avuta una per le mani – so che ne esiste una nientemeno che di recensioni cinematografiche – ma, ecco, già che esistono è un segnale, e sì, le vorrei proprio) (Per altro un numero di rivista, anche unico, composto tutto in questo modo potremmo anche decidere di farlo…).
Adesso, e un po’ mi duole ammetterlo, mi regolo con le scadenze. Se devo fare una cosa mi ci metto e la faccio. Perché il libro deve uscire entro quella data, quindi deve andare in tipografia entro quell’altra, per la revisione c’è bisogno di quel tempo lì e quindi per il giorno X deve essere pronto (fino ad ora, e non solo per colpa mia – in un regime di organizzazione più regolato, per esempio con una grande casa editrice o con una rivista ben avviata, magari le cose andrebbero diversamente – ma, dicevo, fino ad ora sono stato costretto e ho lavorato meglio nell’emergenza, ma mi piacerebbe avere tempi più lunghi, meglio regolati e vedere che succede).

Ti è mai capitato di sentirti limitato nella quotidianità delle cose per via dello scrivere? In altri termini, hai mai sentito una certa difformità tra qualcosa di anche molto banale che ti stava accadendo, e qualcosa che avresti potuto/voluto scrivere a riguardo?
Per come leggo le due parti della domanda – non le vedo come una la parafrasi dell’altra ma come due domande diverse – alla prima rispondo No, mentre alla seconda dico Sì. Non mi sono mai sentito limitato per via dello scrivere, è una faccenda che sta bene nella mia vita e si ritaglia il suo spazio senza creare grossi patemi al resto; mentre invece sì, certo che ho sentito difformità tra qualcosa che mi stava accadendo e qualcosa che avrei potuto/voluto scrivere a riguardo. Non solo, penso che tutta la letteratura viva in quella difformità, e sì, anche la mia. Sta proprio in quell’interstizio la scrittura, vive di quello iato lì, in quella scollatura. Penso che la magia sia tutta lì. Non mi sembra per niente un limite questa difformità.

Qual è, oggi, lo spazio per la parte privata del tuo scrivere (non so, qualcosa tipo diario, o comunque cose che non leggerà mai nessuno) e quello riservato alla parte pubblica (anche solo tenere un blog)?
La mia scrittura privata vive in forma di corrispondenze, dediche, poesie d’amore, cose così (cioè più che privata è indirizzata a destinatari unici, è “relativamente” privata). Per il resto sono molto “pubblico”, scrivo abbastanza poco (credo) e in genere quel poco prima o poi salta fuori. (Per esempio queste risposte che ti sto dando per il tuo Dimmi Come Scrivi E Ti Dirò Chi Sei non ho ancora capito se sono pubbliche o no, ma come vedi in fondo cambia poco: non ti direi cose diverse anche se fossi certo del fatto che le pubblicherai da qualche parte, o meno).

Sapresti descrivere la tua personalissima lingua, quella in cui hai scritto finora?
Italiano, colloquiale. Con qualche incursione nel dialetto della mia città, più che dialetto forse dovrei dire italiano regionale. Ma essendo di Roma questa cosa ho notato che tende inevitabilmente a provocare reazioni prevenute, frutto di un effetto di ricezione viziata da abitudini televisive, e quindi praticamente per essere preso sul serio occorre che io limiti parecchio l’uso del romanesco. Magari un giorno scriverò tutta una cosa in dialetto e mi sfogherò così. La mia è una lingua fresca, facile alla lettura, forse a volte leggermente troppo ammiccante, ma appena appena, un’inclinazione che mitigherò.

Quanto (e cosa) del tuo scrivere può appartenere agli altri?
Mi auguro tutto. Spero che ne siano compenetrati, che vi si riconoscano, che siano folgorati. Spero che ridano con me, che attacchino a leggere e si stacchino solo alla fine del libro, che si sentano un po’ amici e un po’ grati. Che pensino Questa è una cosa che avrei potuto scrivere anche io: quando lo pensi sei di fronte a qualcosa di bello e di solito non è vero mai. Mi auguro di poter appartenere in questo senso agli altri, nel modo più completo.

Pensi mai di smettere? Intendo smettere e non pensarci più davvero, neppure una blanda tentazione – potrebbe essere tipo cambiare città, lavoro, abbigliamento, amicizie, tutto insieme, di colpo.
No, mai.

Adesso scrivi tu una domanda per me.
Mi ami?
Be’, lo sai che ti tifo, F. Per me sei un po’ come la Roma per te, è un fatto irrazionale. Sto lì in curva e faccio sempre il tifo per te. Fa lo stesso?

[Tutte le puntate del Questionario]