L’umanità fittizia e cannibale di questo inizio millennio s’accanisce su Brindisi.
Le prefiche virtuali piangono la ragazzina a mezzo social network e ne fanno un’icona che è già prodotto, merce morta e mortifera che rimpingua l’ego di chi la posta, icona a sua volta; così gli hashtag dovrebbero recare non il cancelletto ma il segno del marchio registrato®. L’indignazione e la commozione durano un giorno, poi è pornografia e commento di un istante.
Una settimana fa, quand’è accaduto, ho pensato solo: “È terribile”. E la domanda: “Perché proprio qui?”. Per sfuggire alla vita in morte del virtuale sono andato a Brindisi, ho visto la scuola e poi la piazza, la manifestazione che ha raccolto persone da tutta la Puglia in una città che in piazza scende poco, persino per i comizi di quell’altra icona che è il nostro Presidente Nichi Vendola. Mi sono detto, al solito, che mi riguardava, e che dovevo vedere coi miei occhi, senza filtri; ho avuto due sensazioni: da un lato lo smarrimento, a fine manifestazione, perché il nemico era divenuto, a quell’ora, ancora più invisibile; e l’idea del recinto, guardando il nastro bianco e rosso che delimitava i contorni del luogo del terrore.
Nei giorni successivi, il cannibalismo dei media, della cronica cronaca che mangia se stessa, dei becchini virtuali, delle prefiche che piangono su ordinazione come nei funerali di noi meridionali; l’invocazione di una mafia vendicativa, più giusta della Giustizia, che secondo certi strani codici non potrebbe mai colpire una scuola; e poi la pista del terrorismo politico, quella dei servizi segreti, dello Stato contro se stesso che ammutolisce il dissenso (quale?) col terrore; e infine ancora i cocci di una mafia nuova, che al contrario colpisce impazzita, e infine – davvero – “il gesto di un folle in guerra col mondo”, l’ipotesi più inaccettabile perché vuota di senso e fuori da ogni limite umano, non confinabile entro le Colonne d’Ercole di alcun piano razionale umano. Molto più accettabile la deontologia mafiosa – esiste? – che l’anarchia o il caos, inspiegabile, che nulla sa spiegare.
Ma l’umano fallisce ogni volta che si pone fuori da sé, che non sa pensarsi in assenza di senso. Così invece va la vita umana, in genere, da millenni, di genocidio in genocidio; eppure necessitiamo di pensarci non privi di senno o dignità; ed è dignità demandare il nostro futuro al nulla del giorno dopo e azzannarci l’un con l’altro? Strillare in virtù della campana, sempre la propria, del proprio orticello, per ottenere ciò che sosteniamo ci appartenga di diritto? Dice il Procuratore Antonio Ingroia che, di qualsiasi cosa si tratti, non si può pensare al di fuori del periodo storico; il periodo storico non è solo crisi economica e politica. Il periodo storico ci investe come genere umano, per cui accade quel che lasciamo che accada. La strage non è fuori dallo spirito del tempo. Non lascia solo terrore, in verità (per quanto la paura sia lo stato d’animo dominante all’inizio di questo secolo): perché in fondo siamo in strada a testa alta ogni giorno, convinti comunque della bassezza dell’assenza di futuro. Qui c’è orrore, ed è orrore ciò che abita l’animo umano, che lo connota non meno di altri tratti certo più piacevoli, orrore che solitamente respingiamo, preferendo la strategia, persino mafiosa o complottista, alla spiegazione che nulla sembra spiegare. Noi viviamo nell’assenza di anche un solo mezzo buon motivo per stare assieme che non sia trovare un nemico più o meno comune; noi viviamo nella totale assenza di assunzione di responsabilità – la colpa è sempre di quello accanto o del governo precedente. Su Internet c’è un esercito silenzioso di persone che si sono già cancellate dalla storia, non solo quella con la s maiuscola, ma anche dalla propria, quella individuale la cui dignità dovrebbe importare a qualsiasi altro essere umano. Internet è per molti di noi una discarica infinita di solitudini e frustrazioni, di autosospensione dall’umano in attesa della fine del Tempo.
Di me posso dire che ho pensato, dopo aver saputo, che l’avvenimento ci avrebbe cambiato; che doveva cambiarci: conosco questa terra e la sua violenza, quella del sopruso quotidiano nella piazza del paese che vive di spaccio e usura – fa scena (muta) il cordoglio di alcuni commercianti, noti usurai ed evasori, che mostrano il manifesto col nome della ragazza sulle saracinesche delle loro attività – e quella degli affari dell’eolico nelle nostre campagne, quella che passa pure dai moralisti del ricordo di Renata Fonte e Peppino Impastato che due giorni dopo sono sulle curve del Lecce o del Bari ad affogare nello schifo delle scommesse sportive. Conosco la differenza tra abitare un posto e il semplice abitare in un posto; io che qui ci sto ormai per caso, coi pezzi che cadono a pezzi, vedo invece il recinto: il ring su cui media e piccoli individui giocano alla gara dell’accreditamento a tutti i costi (“Io sono io e ho più ragione di te, certo però il tuo blog è niente male – anche se non lo seguo”), della rappresentazione, dell’ultim’ora, del cinismo di ritorno – come l’analfabetismo, un cinismo non ancora vissuto che, al pari di certa felicità che si dice essere illusoria, neppure ha superato né affrontato la prova dei fatti, e che anima l’informazione come i blog satirici e certi status su Facebook.
Così Avetrana era la prova generale. Brindisi è il delitto (simbolicamente) perfetto. La politica s’indignerà ancora un giorno e insabbierà quello dopo, chiedendo il voto in cambio di un caffè al bar. Troveremo il nostro Lee Oswald e lo impiccheremo in piazza della Vittoria. Celebreremo la memoria delle vittime e la vittoria di una giustizia senza verità, mentre la verità ci abita da dentro ed è l’orrore; il quale resterà inspiegabile e si farà ossessione come per certi americani del dopo ’63.
Questa sarà la nostra Dallas.