Niente nel tempo e tutto nel cuore, dice il mio doppio.
Il punto di non incontro, aggiunge, è sempre il bullone che unisce i manici delle cesoie.
Entra così, rabbuiato, si sistema nel letto a guardare la tv. Dormiremo insieme anche stanotte in questo nostro alberghetto di quart’ordine. Definiamo alberghetti di quart’ordine quelli con le tapparelle elettriche rotte, in cui le tendine puzzano di un piscio pisciato da almeno tre giorni (ma chi è che si mette a pisciare sulle tendine di queste stanze?). Dormiamo insieme, nello stesso letto, come Ismaele e Queequeg in quella che in Moby Dick è una tenera scena di umorismo a sfondo omosessuale (ne abbiamo trovato traccia in una commedia che abbiamo visto l’altro giorno in tv, in cui Bruce Willis e Matthew Perry si risvegliano nudi nello stesso letto dopo una nottata alcolica).
Così il mio doppio s’è messo a guardare il calcio inglese. Dice che è l’unico football credibile, perché i giocatori sono ancora brutti come dovrebbero essere tutti i calciatori. Prendi Wayne Rooney, ha detto, sembra scolpito nell’argilla come La Cosa dei Fantastici Quattro. Ho compreso che era il caso di assecondarlo, perché era ancora più rabbuiato, e per quel principio di un principio che è il principio dei vasi comunicanti, se lui è giù, io devo star su; non sempre ci riesco e così ho tentato di improvvisare, mettendo in piedi una sorta di lettura musicale dell’onomastica dei Fantastici Quattro; ho spiegato che il nome del fumetto è una citazione, piuttosto esplicita, dei Beatles; e così l’uomo di gomma, Reed Richards, porta nel nome un doppio omaggio a Lou Reed e a Keith Richards – ma niente, il mio compare si è aperto del tutto e ha sentenziato: Non sono i luoghi che visitiamo a fare il viaggio, ma i sentimenti con cui lo affrontiamo, con cui affrontiamo i singoli luoghi in cui ci muoviamo; i veri posti che visitiamo sono i sentimenti che ci accompagnano in quei posti: per cui siamo tutti nomadi, nomadi sentimentali, anche da fermi.

Abbiamo passato il resto della notte a discutere di immaginario. Per il mio doppio l’incontro tra persone è, soprattutto, per prima cosa un incontro tra immaginari. Ognuno porta il suo, e su questo ero d’accordo; solo ho aggiunto che ci sono persone che hanno affidato il proprio immaginario ad agenti esterni, come film o canzoni, che parlano – e spesso ciarlano – al posto loro. Chiamo queste persone Ragionieri: saprebbero fare qualsiasi cosa, ma senza cuore e con molto disincanto. Non è questo il punto, ha controbattuto lui; il punto è che io e te potevamo starcene a casa, questo viaggio è inutile, perché in questo siamo tutti uguali: da fermi siamo nomadi comunque, è il nostro immaginario che si spinge oltre i confini consentiti, fin quando non trova persone in carne ed ossa e allora è rimandato indietro. A quel punto non lo seguivo più, gli ho chiesto di spiegarsi meglio e, cosa davvero sconvolgente, il mio doppio l’ha fatto davvero. In genere preferisce bofonchiare e inveire fino ad addormentarsi.
Noi portiamo il nostro tendone da circo con piovre giganti e domatori di leoni e elefanti e organetti di barberia in giro tra la gente e lo piantiamo da qualche parte. Qualcuno sembra gradire, soprattutto da lontano, poi si avvicina proponendo il suo, di circo, e ci si scambia fino a volersi cambiare reciprocamente; io ti do due elefanti, tu mi dai qualche pezzo del tuo immaginario, cose di questo genere; finché sia io che tu scopriamo che l’immaginario non basta, che il circo dovrà comunque lasciare la città prima che esca fuori una persona vera e propria, l’individuo, il corvo nero che portiamo dentro, cui un immaginario e qualche trucchetto da due soldi non è certo sufficiente. A quel punto, ho detto io, intervengono i Ragionieri. Non è questo il punto, s’è infervorato il mio doppio, il punto è che comunque il circo deve lasciare la città, e quasi mai viene richiamato a piantare le sue tende in posti in cui è già stato; e se capita, il pubblico realizza subito che il tuo circo è invecchiato di colpo, uno di quei circhi con animali anestetizzati, con due clandestini dell’est europeo che fingono di esser messicani giocando col lazo, e il domatore stanco col parrucchino che non ha più bestie da domare se non i suoi fantasmi, che ha provato ad affogare, con un po’ d’alcol, nella vasca del finto calamaro gigante.
Chiaro, ho detto io.
E non è colpa dei tuoi Ragionieri, ha aggiunto il mio compare, e neppure dei circhi più grandi, non è colpa degli Orfei: sei tu che sei un circo, un eterno carnevale.
Chiaro, ho ribadito. Dopo un po’ di silenzio (lo United ha vinto, comunque), ho tentato di citare Samuel Beckett, attenendomi però a quanto detto dal mio doppio circa il nostro girovagare.
Dormiamo?, ho chiesto.
Dormiamo.

Non ci siamo abbracciati.