C’è un tipo di solitudine che non si può raccontare, un tipo di solitudine ricercata con pazienza, che non rende infelici, questo no, ma che ha comunque a che fare con la paura (o col timore, che è una modulazione solo qualche tono più in alto della paura). Questa solitudine non può esser detta per un fatto tecnico, prima di tutto, poiché funziona con lo stesso meccanismo che regola le ore e i minuti e i secondi dei segreti: un segreto esiste solo se sta tra due parentesi ben chiuse; questo tipo di solitudine, puntando in qualche modo ad esser autentica, è viva solo se appartiene a una sola persona. In altri termini, se uno ha da raccontarla, supponendo così di aver qualcun altro per le mani: che razza di solitudine è?

C’è dell’altro. Questo tipo di solitudine ha a che fare con le tombe abusive e provvisorie dei morti ammazzati d’incidente stradale che, come pietre miliari, segnano la via che porta al mare, soprattutto d’inverno.
Chi prega, laggiù?

Ha un passo così svelto, da milonga, questa solitudine quando s’accompagna alla paura. La paura: del resto – come il timore – non è il modo con cui la esplicitiamo (non: la affrontiamo, non m’interessa), a caratterizzarci più di ogni altra cosa? Non è forse l’esistenza stessa di una qualche nostra paura a presupporre che si possa sbarazzarsene?
C’è tutto un diritto della paura che andrebbe messo a norma, formalizzato – ma no, ma no: meglio di no, finisce che quelle due o tre regole che conosco di questa materia, nel farsi memoria, si fanno anche legge, e così si farà di tutto per aggirarla.
Quanto a quella mia amica che voleva scrivere una favola per raccontare la personificazione della paura in una dinastia di sovrani… perché non l’hai ancora fatto? L’aspetto: è una misura appropriata e tu sei piccola abbastanza per farlo.
Quanto a me che parlo di solitudine (e poi con chi?), sciupandola: mi darò del dissociato.