Questo articolo, recuperato e condiviso su Facebook da Isabella Leardini, è apparso per la prima volta su La Repubblica dell’1 luglio 1989. Lo ha scritto Giorgio Manacorda. Ho lasciato invariati refusi e spaziature di troppo. I grassetti invece sono miei. Buona lettura.

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Il nostro paese vive una singolare contraddizione: sono più le persone che scrivono poesia di quelle che la leggono. L’ Italia è una terra di poeti che non ama i poeti. E non è una forma di masochismo, bensì di autodifesa. Dopo aver frequentato cinque anni di liceo classico, a molti italiani una cosa è chiara: i poeti sono oscuri, e non si sa perché. Con queste premesse non si può pretendere che un giovane ci provi gusto a leggere versi; e così, per esaudire il proprio bisogno di poesia, la scrive. Tanto più che i programmi scolastici finiscono con i poeti ermetici. Lo dice il nome stesso che non si capiscono! Dopo gli ermetici ci sono stati i post-ermetici. Il neorealismo in poesia praticamente non è esistito (sembra che nel nostro paese realismo e poesia siano termini antitetici). E siamo agli anni Sessanta e alla neo-avanguardia, che teorizzava, e praticava, l’ illeggibilità del testo in sostanza era considerato lesivo della dignità intellettuale del poeta farsi capire dal lettore. La coniugazione di illeggibilità avanguardistica e oscurità orfica ha generato i nipotini rovesciati dei Novissimi: aulici, ermetici come i nonni, o forse i bisnonni, e comicamente audaci come gli zii. Tornano alla poesia chiusa, alta, difficile, scimmiottano i classici, addirittura Holderlin! (le traduzioni di Holderlin). In mezzo c’ è stata un’ altra generazione di poeti: quelli che oggi hanno quarant’ anni. Non sono identificabili con una scuola. Per fortuna non hanno teorizzato niente. Così chi aveva qualcosa da dire in poesia, l’ ha detto e basta. Forse si può dire che le loro radici affondano a Milano nella linea lombarda (quella che si può simbolicamente identificare con un Vittorio Sereni o un Giovanni Giudici) e a Roma nell’ esperienza di Officina (Pasolini, Fortini). Il risultato è una caduta secca dell’ ermetismo, con conseguente diffusa leggibilità del testo poetico. Eppure qualcosa non va. Un genere letterario che sembrava immortale, tanto è ricco e duttile, langue ridotto ad oggetto di culto. Si è creata una specie di casta che ormai non è più in grado di riconoscere la poesia, qualora apparisse. E’ nato un gergo poetico fatto di sonorità note e di grandi abilità; è un gradevole birignao intessuto della capacità di coniugare con sapienza patrimonio metrico, iconografico, e perfino tematico, con una moderata spericolatezza formale, o con il calco post-moderno di tradizioni più o meno gloriose. Insomma, se, dopo la lettura di un volume di versi, invece di chiedermi se è fatto bene o come è fatto, mi chiedo cosa ha detto, quasi sempre è impossibile rispondere. Cosa ha detto? Non lo so, ma sono tutti bravi. I due più bravi, però, Pasolini e Montale, all’ inizio degli anni Settanta avevano capito che il problema era questo e per dire qualcosa, per dire quello che avevano da dire, hanno corso anche il rischio estremo della dissoluzione della forma. Un sistema stilistico è troppo esclusivo, diceva Pasolini. Un poeta deve dire una cosa, magari una cosa sola, ma quella deve arrivare alla testa e al cuore dei lettori, al di là di tutte le abilità stilistiche, che sono molto, che sono necessarie, ma non sono tutto. Bisogna cominciare, allora, a porsi domande elementari del tipo: i poeti sanno fare i poeti? A settembre dell’ anno scorso ha visto la luce negli Oscar Mondadori un libro inquietante: Il manuale del poeta di Mario Santagostini. Se ne auspica l’ attento studio da parte della grande maggioranza dei poeti pubblicati. Quasi nessuno, infatti, sembra conoscere le più elementari regole metriche, per non parlare della rima: e chissà quanti sanno come è fatto, non dico uno strambotto o un madrigale, ma un sonetto. Se ne sconsiglia, invece, l’ uso agli aspiranti poeti. Questo manuale contiene nozioni specifiche, con le quali, chi aspira a scrivere versi, non può non avere confidenza. Come se in Italia non ci fossero abbastanza poeti! La divulgazione degli strumenti del mestiere è criminale. Le masse illetterate in un’ oretta di attenta lettura avranno l’ illusione di aver acquisito tutto lo scibile poetico. Sapranno cos’ è un endecasillabo o un sonetto, ma non sapranno altro e penseranno che ciò che conoscono sia sufficiente. Così non avranno più ritegno, e il numero dei poeti, nel nostro paese, tenderà drammaticamente a crescere.