(Foto: Daniele Argentiero)
Dopo aver fatto un salto su a Detroit al solo scopo di pagare un debito di gioco e dare un’occhiata al lago St Clair, si diressero a est lungo l’uggioso tedio del Canada, la Highway 401, la sconcertante monotonia di tanta piattezza e ripetitività. Questa parte del Canada non è altro che un debole riflesso della gloria statunitense, disse lui. Poi attaccò la solita solfa dei vecchi amici renitenti alla leva che avevano dato di matto per la nostalgia della roba americana. Uomini che quando chiudevano gli occhi avevano allucinazioni di rivendite di hamburger, locali di spogliarello e cartelloni pubblicitari. Io l’ho evitato. Ho aggirato il problema, disse. Sono entrato nella Marina mercantile per non dover fuggire in Canada, e l’ho scampata facilmente mentre i miei amici partivano e tornavano indietro col cervello sputtanato, oppure morti. Mi sento in colpa per questo? Certo. Ci penso ogni giorno della mia vita? Certo. Condanno il modo in cui la storia ha fatto a pezzi i miei migliori amici? Certo. Rifletto sulla grande serietà perduta con cui si facevano le cose in passato? Sicuramente. Passo le mie giornate in uno stato di profondo cordoglio? Certo. Racconto sempre le solite vecchie storie stantie come modo per lenire il dolore che mi si è piantato fra le costole? Senz’altro. Sono l’ennesima anima persa degli anni Sessanta che si è calata una pasticca di troppo ed è rimasta in acido per sempre? Senza dubbio. E da quel momento in poi continuò a parlare, senza riuscire a fermarsi, finché non allargò il discorso (mentre lei sonnecchiava e dormiva a intermittenza, svegliandosi da un sogno per cogliere frammenti della sua voce), sprofondò in una fantasticheria e raccontò una lunga storia, mentre viaggiava sotto il limite di velocità perché i poliziotti a cavallo canadesi erano in giro, con il cappello di traverso.
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David Means | Il punto