«E in quel tempo dopo l’uomo, c’era ancora qualcuno che provava a contare le stelle.»
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Senza fronzoli, si sta subito tra il netto e l’indefinito delle prime vignette: tra quel poco che sappiamo di un mondo in cui l’uomo è scomparso e quello che al contrario non sappiamo ancora, e che così – solo così – può dare avvio al racconto.
Oppure: le nebulose di chiaroscuro di Corrado Roi che d’improvviso si fanno volto limpido e definito.
E poi ovvio, il bianco e il nero: da sempre le notti di Roi hanno il cielo bianco e gli interni sono architetture di nero assoluto. (Ancora una volta: quello che dovremmo sapere che si svuota e si annulla ravvivandosi in quello che ancora non sappiamo – e che senza dolercene troppo, potremmo non conoscere mai.)
L’ho preso, Le vie della fame, questo primo numero di UT, sulla spinta di certe influenze di cui avevo letto – Borges, soprattutto – e poi per la serie di keyword pressoché perfette: Roi+Barbato+Bonelli+Miniserie. Ma sono presto scivolato in universo più nero e più furbo, più snello, più fiabesco di quel che pensavo: ancora ragionando per opposizioni, la crudeltà postumana e cannibale che si contrappone alla dolcezza del micio Leopoldo e di Yersinia, la bambina-che-non-esiste; UT, questa maschera con una cerniera per bocca, e le sue banali missioni – salvare per l’appunto il gattino, mangiare una volta al mese – che fanno da controcanto al disegno (invisibile al lettore) dell’entomologo Decio o al lungo raggio del mistero del fossile Iranon e della congrega degli umani.
Il mistero, ancora, che si accumula e disorienta, incuriosisce, attrae, rivestito come statua di cartapesta o cera da un’atmosfera onirica, sfumata, succhiata via e poi sputata – come si fa con la benzina da un serbatoio all’altro – da certe visioni steampunk intraviste forse in Franklyn o – per quanto concerne certe scazzottate – in qualche racconto di supereroi.
Tutto questo, si è detto in apertura, senza fronzoli: siamo subito gettati in pasto al racconto, senza spiegazioni o introduzioni di sorta, in un tempo senza tempo notturno e grottesco, in strade di fame e miseria governate da una logica astratta e credibile, in ogni caso propria del mondo sinistro in cui entriamo con questo primo episodio.
Così operano pure le soluzioni narrative: nessuna voce onnisciente, didascalie a zero e scarti turboellittici tra una tavola e l’altra – è sufficiente voltar pagina per essere altrove, in un’altra sequenza oscura e desiderabile.
Si può essere tanto a proprio agio pur non avendo nessuna mappa per orientarsi? In UT succede, e succede intensamente, anche nei dialoghi che dicono, divertono e non spiegano mai a sufficienza: e chi vuol capire capisca, ammesso che conti qualcosa.
L’impressione è quella di stare nel sogno, nello sciogliersi finalmente di una serie di visioni lasciate in sedimento per anni (come scrive lo stesso Roi nella nota d’apertura). Provate anche voi, in effetti è così che funziona: se appunti, poco per volta, quello che vedi e che senti con altri sensi – come in fondo è l’olfatto per i cannibali nelle vie della fame – nel corso di anni, di decenni, senza alcun intento di farne trama o storia, quel che ne vien fuori è un mondo che vive da sé come Entità compiuta, per quanto strampalata – a cui la Barbato, nel caso di UT, ha saputo dar forma con estrema discrezione: in un’evidente unità creativa con Roi, un power duo cui è stata data profonda e sorprendente libertà d’azione.
Succede così che il fumetto, libero dallo schema del fumetto, si appropri pienamente di atmosfere letterarie per fare letteratura dura – persino più che in certi libri, dove (forse) la letteratura non è più ammessa, di questi tempi.
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