Di fatto non si capisce, in questa scia di commemorazioni, se Fantozzi abbia più messo alla berlina con incredibile ferocia la mediocrità italica, o se al contrario l’abbia giustificata, moltiplicandola all’infinito – se, cioè, la maschera fantozziana abbia avuto o meno funzione autoassolutoria per la maggior parte del pubblico (autoassoluzione poi degenerata del tutto con cinepanettoni e gigieandreate varie da un lato, e nannimorettismi da un altro).
Una cosa è certa: la sindrome della Corazzata Potëmkin, ovvero la prigionia della cosiddetta cultura alta, del guilty pleasure difficilmente confessabile in pubblico, è ancora viva per molti intellettuali italiani; ancora oggi, molti di questi intellettuali, ricordando la maschera di Fantozzi, si sentono in dovere (non avendone forse neppure il diritto) di dare una lettura vagamente di sinistra e certamente colta, impegnata, insomma alta, dell’arte di Paolo Villaggio, che era un’arte – per quel che riguardava il cinema soprattutto – nazionalpopolare, tutta istinto e effetto (nonché un classico: nel senso che non c’è neppure bisogno di vederlo, un film di Fantozzi, per saperlo).
Ad ogni modo. Domani, estinta l’emozione, parleremo d’altre cose: e questo, di questi tempi, ci rende tutti uguali.