Settant’anni fa, nel 1947, Tempo di uccidere di Ennio Flaiano vinceva il primo Premio Strega della storia.
Pur di sfuggire alla noia e al mal di denti, un soldato italiano si muove a casaccio in un paesaggio etiope senza nulla di esotico: prima, per difendersi da una bestia indistinguibile nei pressi di un fiume, spara un colpo e ammazza involontariamente la povera Mariam, indigena con cui ha appena fornicato; poi, seguendo la paranoia più che l’intuito o una pista di solidi indizi, realizza che Mariam era probabilmente una lebbrosa, sprofondando così in un universo di vuoto e senso di colpa (“Sempre abbandonavo qualcuno nella disgrazia”). Pian piano, la congettura e la monomania smangiano la stravaganza da romanzo esotico/d’avventura (“Non il colpo a vuoto ma la mia gretta immaginazione…”), col protagonista che avanza quasi autisticamente in uno scenario saturato dalla disgrazia e dagli equivoci, tra MacGuffin ante-litteram e qualche puntatina surreale (un camaleonte che fuma nel bel pezzo del paesaggio africano), senza mai incontrare davvero l’altro – tanto gli africani quanto gli altri militari italiani.
Nell’olezzo di cose che muoiono di (presunta) lebbra, per il soldato di Flaiano tutti sono Mariam, perché tutti portano quel nome che è un nome di colpa, peccato involontario, legato alla natura umana, che si oppone e degrada le romanticherie indirizzate alla fidanzatina che attende in Italia.
Tutto è ambiguità e incomprensione, insomma, in
Tempo di uccidere, romanzo lento e faticoso la cui gestazione – involontaria quasi quanto le azioni del suo protagonista – racconta forse qualcosa di più interessante sull’autore e sui tic dell’editoria italiana di allora e di oggi. L’opera fu infatti scritta per scommessa (e per soldi) con Leo Longanesi. Flaiano la approntò e consegnò in un paio di mesi, ne fu insoddisfatto e continuò a riscriverla negli anni anche dopo la vittoria dello Strega; vittoria verso cui l’autore provò sempre imbarazzo e che giudicò “un malinteso” (di qui un famoso aforisma flaianesco sul successo).
Come ha scritto Anna Longoni, la pubblicazione di 
Tempo di uccidere fu per Flaiano il dazio da pagare per poter entrare nella giungla dell’editoria italiana. Un dazio, aggiungo io, che violò l’arte di uno scrittore votato al testo breve, come sappiamo (oggi, Flaiano si divertirebbe coi meme). Una “violenza” che permea anche l’editoria contemporanea, aggiungo sempre io, forse esagerando – ma non troppo: il romanzo, prodotto editoriale evidentemente inflazionato (peraltro in un contesto di abitudini di lettura radicalmente mutate), continua a essere “imposto” a chiunque voglia esordire o continuare a pubblicare narrativa (o “varia”, per i più tecnici).
Ad ogni modo, in appendice alla mia edizione Rizzoli di Tempo di uccidere c’è la vera chicca di tutta questa faccenda, e cioè Aethiopia – Appunti per una canzonetta, serie di brevi cronache e pensieri raccolti in Etiopia da un Flaiano ancora venticinquenne. Qui di seguito un piccolo estratto. Buona lettura.

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Alla base di ogni espansione, il desiderio sessuale.

Un soldato scende dal camion, si guarda intorno e mormora: “Porca miseria!”.
Egli sognava un’Africa convenzionale, con alti palmizi, banane, donne che danzano, pugnali ricurvi, un miscuglio di Turchia, India, Marocco, quella terra ideale dei film Paramount denominata Oriente, che offre tanti spunti agli autori dei pezzi caratteristici per orchestrina. Invece trova una terra uguale alla sua, più ingrata anzi, priva d’interesse. L’hanno preso in giro.

Passa un’autocolonna di artiglieria.
Sul primo pezzo: “Verso la Gloria”.
Sul secondo: “Sempre ed Ovunque” e così di seguito: “Ruggo, Rombo, Rompo”, “Difendo la Patria”, “Indomabile”, eccetera. La retorica si è sfogata. Sull’ultimo pezzo, hanno scritto soltanto: “Ginetta”.

Scritto sul casco di un motociclista: “Duce, sono matto, ma fedele.”

La civiltà è un’opinione
Sarà molto difficile, forse impossibile, amalgamare questa gente, portarla ai nostri costumi. Dopo quarant’anni di dominio gli eritrei sono ancora pieni di credenze e di usi radicati e ci vorranno almeno altri quarant’anni di cinema americano per guastarli.

L’uso che gli indigeni fanno di certe nostre parole è singolare. Per dire “molto” dicono sempre “troppo”, cosicché ogni loro desiderio assume un tono esagerato, falso.

Penetrazione culturale
Chiedo a un soldato un pezzo di carta, per un appunto. Ne porge un foglio con qualche riga: poi si accorge dell’errore, vorrebbe ritirarlo, ma non gliene do il tempo. Leggo lo scritto: scilàbot, mitri (gli organi sessuali, in tigrino) e via di questo passo.
Il soldato, confuso, afferma che, in fondo, sono le parole che hanno più probabilità di altre di essere usate.
Del resto un ufficiale, partente per la Germania e digiuno di tedesco, affermava di potersela cavare in modo brillante conoscendo il verbo lippen (leccare).
Penso a tutti i manuali di conversazione che ancora si stampano a Lipsia.

Gennaio
I soldati vivono tutti per il ritorno. Quel giorno sarà bello, pensano. Invece la realtà è un’altra. Trovare che tutto è cambiato, che il mondo è andato avanti senza di loro, questa sarà la prima delusione. Le altre, diramazioni.

Dopo un mese a Zehuf Emni
“A poter spaccare la terra in due ci si troverebbe dentro uno di quei foglietti che si trovano nei cioccolatini con un proverbio incitante alla rassegnazione.”

Quando la campagna sarà finita non pochi si precipiteranno a scrivere dei libri. Già immagino il contenuto e i titoli: Fiamme nel Tigrai, Africa te teneo, Tricolore sull’Amba! E i giornalisti? Chi ci salverà da questi cuochi della realtà?

Appunti storici
La gomma nelle conquiste coloniali.
Uno dei primi radiogrammi trasmessi dal generale Starace da Gondar al Comando Superiore (Intendenza) è il seguente: “Data l’impossibilità di frenare il meretricio, chiedo l’invio a mezzo aereo numero diecimila preservativi e cinquemila tubetti pomata antiluetica”.

Tutti i giornalisti sono d’accordo nel trovare che il cielo d’Africa è “azzurrino”, la lontananza “vaga”, i tramonti “fatti di porpora e oro”.
“Italiani baciare bene, noi baciare male.” Questa frase detta da un tigrino potrebbe far sorgere dei sospetti sulla normalità delle sue attività sessuali. Eppure molti ex nemici me l’hanno ripetuta. Spiegare il dubbio è facile. All’attacco i nostri fanti partivano col fucile nella mano sinistra e una bomba nella destra. Per liberare il percussore della bomba dovevano togliere la linguetta coi denti, dopo di che la bomba, lanciata, scoppiava. Gli etiopici riuscirono a catturare diverse casse di bombe all’83° Regg. Fanteria, bombe che usarono contro di noi, nell’azione dello Scirè. Soltanto dimenticavano di togliere la linguetta, limitandosi a “baciarle” (cosa che avevano visto fare ai nostri) col risultato che le bombe rimanevano inesplose e venivano subito usate dagli italiani. Questi le facevano scoppiare “baciandole bene”.

L’etiopico riconosce la forza costituita, il vincitore. Qualcosa come il nostro napoletano (ma più moderato nelle canzoni).

Il capomanipolo Rosano, ex incaricato di polizia inglese nel Niassa, ex tenente della Legione Straniera Spagnola (e perciò non più promuovibile nell’Esercito Italiano dove è sottotenente), tipo avventuriero, fascista, ardito di guerra, boxeur professionista, ha scritto questa epigrafe da apporre sulla sua tomba (in caso di morte in battaglia): “Qui giace il sottotenente a vita Rosano – che si è sempre con successo battuto per il denaro – La prima volta che tentò di battersi per la gloria – lo prese in…”

Scritto sul casco di un soldato: “Oggi non posso morire”.

L’etiopico abituato nel passato alla vista di “bianchi” scelti, di ufficiali, di funzionari o di gran commercianti, non si abitua all’idea dell’operaio “bianco”. Cosicché lo definisce “indigeno italiano”.

L’abissino considera l’automobile (machina) l’aeroplano (trubunale) come enti soprannaturali che funzionano a benzina ma con l’intervento divino. Quindi se ne stupisce poco. Ciò che lo lascia stupefatto è per esempio la bicicletta, la casa a due piani, la palla di gomma. Queste son cose meravigliose le quali, non potendo spiegarsele come grazia divina, restano tuttavia incomprensibili al suo spirito, come opera umana.

Invito biblico di una donna indigena: Avcù c’è (“Fratello si può”).