Date un’occhiata
alle mie uscite,
ai costi
di produzione,
alle spese
sostenute
per il materiale.
Conoscete di sicuro la cosa
chiamata “rima”.
La riga,
mettiamo,
finisce
con “padri”,
e allora
in quella dopo
ci tocca
scrivere
“ladri”
o “leggiadri”.
Nella lingua a voi più familiare:
la rima, vedete,
è una cambiale
da scontare dopo un verso,
è la prassi.
E così cerchi
spiccioli di suffissi e flessioni
nella cassa
ormai vuota
delle declinconiugazioni.
E provi a ficcare
nel verso la parola buona
ma quella non vuole,
e tu spingi,
e mandi tutto a puttane.
Cittadino ispettore,
vi do la mia parola d’onore:
al poeta
costano le parole.
–
Vladímir Majakóvskij
(Per una volta vorrei commentare, sia pur brevemente, una delle tante storie degli altri che affollano questo blog. Qui, com’è sempre con l’ironia, Majakóvskij opera un rovesciamento – in questo caso linguistico: al “cittadino ispettore” si rivolge parlando di “una lingua a voi più familiare”, come un burocrate che faccia lo sforzo di risultare più chiaro possibile parlando di qua dal front office con un cittadino in mora accorso in confusione all’ufficio dell’erario; un burocrate poetico, in questo caso, laddove la burocrazia è solitamente la lingua – oscura, grottescamente indecifrabile – del potere, la stessa dei più kafkiani uffici statali abitati da anonimi, disumani “cittadini ispettori”. Nonostante questo sforzo di chiarezza, Majakóvskij utilizza comunque un termine per la maggior parte di noi “cittadini ispettori” incomprensibile, grottescamente tecnico: quel “declinconiugazioni” (associato non a caso a “cassa”) che in verità neppure un poeta userebbe mai per davvero. Il cerchio è chiuso, il “cittadino esattore” – per un attimo anche il lettore – è più confuso di prima; tuttavia, ecco che subito il poeta torna a essere poeta, a stare dall’altra parte del front office col lettore (cioè dove è più probabile che si trovi il lettore), col ritmo dei versi che torna ficcante e soprattutto col ricorso all’espressione “mandar tutto a puttane” – tipico di uno spirito passionale che non cerca più di far quadrare i conti ma i versi. Allo stesso modo, nel finale sfuma anche il peso tipico della lingua burocratica, per quanto poetica: “al poeta/costano le parole”, così perde consistenza ogni protesta concreta e tutto torna al suo posto. Furente, ironico e leggero, Majakóvskij fu tra le altre cose il conflitto vivente tra la rivoluzione meccanica socialista e la liquidità di un inestinguibile istinto individuale – piccoloborghese, si sarebbe detto all’epoca; una contraddizione irrisolvibile, da cui sfavillavano magnifiche scintille come questa.)
Tradotto da..? (Credo sia importante citare sempre il nome di chi ha tradotto, di chi ha reso l’ironia/la bellezza/la poesia di una lingua in un’altra che noi conosciamo 😉
Soprattutto in questo caso in cui ci sono invenzioni linguistiche! (Scusa i due commenti separati…)
Dovrebbe essere Serena Vitale… Di solito metto il nome del traduttore, qui mi è sfuggito 🙂
Grazie!