Col mare mi sono fatto una bara di freschezza.
Giuseppe Ungaretti
Sono stato a Taranto al funerale di Alessandro Leogrande. Ci sono stato perché conoscevo Alessandro, per il suo lavoro, per le sue parole, per quelle di suo padre. Ci sono andato con lo stato d’animo del cacciatore, di chi cerca qualcosa, probabilmente per scriverne.
Quando ho saputo della morte di Alessandro Leogrande l’ho subito messa in relazione con quella di Guglielmo Minervini. Incredulità mista a un senso di ingiustizia. Le menti migliori di questa terra: lo abbiamo pensato tutti.
E così a Taranto sono andato, la mattina del 2 dicembre 2017, con un orologio fermo al polso. Non so se l’assenza di tempo faccia scattare un’ora immortale, se sia in qualche modo un rimando concreto all’eternità. Comunque in via Lucania, dove abita la famiglia di Alessandro, sono arrivato in anticipo; il feretro però era già in chiesa. Allora mi sono fermato a leggere i manifesti sulla cancellata del vialetto d’ingresso del palazzo. C’era quello di Roberto Saviano, tra gli altri. Accanto a me si fermava altra gente, uno o due alla volta prima di andar via in silenzio, qualcuno sbuffando e scuotendo la testa per lo sconforto. Poi dal nulla è comparsa un’ape. Mi ha sfiorato il naso e ha fatto per attaccarsi in testa. D’istinto l’ho scacciata, mi sono guardato intorno. Il cielo bianco, venato di grigio ma senza pioggia, i condomìni, le foglie morte per terra, più distante un edificio di pietra, semidiroccato. Cercavo di indovinare lo sguardo di Alessandro quando lasciava la sua palazzina e metteva piede per le strade di Taranto al mattino, magari prima d’andare a scuola, ai tempi del liceo. Cercavo di guardare Taranto coi suoi occhi.
La chiesa di San Roberto Bellarmino, su Corso Italia, è vicino al cinema che porta lo stesso nome, una piccola sala dove proiettano film indipendenti, fuori dai grossi circuiti. Siamo alle spalle di viale Magna Grecia, uno di quei posti in cui Taranto si mostra forse più maestosa, più metropolitana che in altri. Ma Taranto è meravigliosa a prescindere, ogni angolo, vecchio o moderno, racconta questa città. Taranto è, pure per via delle sue contraddizioni novecentesche, l’unica città vera di questa regione.
San Roberto Bellarmino. Ho cercato notizie in rete, prima di venire a Taranto. Uomo del dialogo in tempi di Riforma e Controriforma, forse persino alle prese con Giordano Bruno e Galileo Galilei. Anche da cardinale visse sempre a contatto coi poveri, e se non fu fatto papa fu anche per via del suo stile di vita rigoroso e austero, per la distanza dalla mondanità di certa chiesa. Fa sorridere pensarlo, ma un po’ ricorda Alessandro, il suo modo di stare tra giornalisti, scrittori, redazioni di giornali e riviste.
Ho saputo della morte di Alessandro da Antonio, un giovane professore della mia città emigrato per lavoro ad Alba, in Piemonte. Prima di Alba, Antonio aveva insegnato alla scuola Giuseppe Ungaretti di Paolo VI, dove insegnava pure il papà di Alessandro. Io ho conosciuto Alessandro per via di Antonio, e Antonio ha conosciuto Alessandro per via di suo padre.
Quando Antonio mi ha scritto, lunedì mattina, l’anteprima dell’ultimo messaggio di chat diceva: “Che risveglio di merda”. Non volevo aprire il messaggio, ho pensato che fosse morto Paolo Conte, passione comune tra me e Antonio, ma poi l’ho fatto, ho letto per intero, e non ci si poteva credere. “Alessandro non c’è più”, mi ha scritto Antonio. “Non c’è più” è diverso da “è morto” o “è scomparso”. Morire, persino scomparire fa pensare a un’azione, a un’uscita di scena che presuppone un’azione, un ultimo impeto fisico da parte del morto. “Non c’è più” è semplicemente questo: puff, Alessandro non c’è più, prima c’era e ora non c’è più, punto, chissà dov’è.
Due giorni prima di morire Alessandro era vicino Lecce, a Campi Salentina per la Città del Libro. Pensavo di andare a sentirlo, poi non ho fatto in tempo. Non ho fatto in tempo. Con Alessandro funzionava così: era sempre in giro, in Italia e soprattutto in Puglia. Anche se lo mancavi quando era a Ostuni o a Lecce eri certo che lo avresti incontrato di nuovo in giro a breve. E se non lo beccavi, potevi star tranquillo che lui era lì a fare il suo lavoro, a documentarsi e a scrivere come sempre.
Come Antonio e buona parte delle persone che conosco, Alessandro di fatto era un migrante, proprio come le tantissime voci che aveva raccolto e raccontato in molti dei suoi testi. Il fatto che alcuni dei nostri conterranei si affermino altrove come professori, scienziati, magistrati, scrittori, giornalisti o chissà cos’altro ci fa dimenticare che il punto di partenza è sempre quello: dover lasciare il posto in cui si è nati. Doverlo fare subito dopo l’adolescenza, per diventare adulti, come scriveva il Conrad della Linea d’ombra che Alessandro citava in uno dei suoi libri. Per questo quando ho saputo che il funerale di Alessandro era a Roma – non c’erano ancora notizie del funerale tarantino, non ancora – ho provato un irrazionale senso di rabbia. Ma come, era nostro, Alessandro, ho pensato. Era nostro.
John Berger ha scritto che gli immigrati arrivati a New York dall’Europa a inizio Novecento barattavano il proprio corpo in cambio del proprio futuro. La stessa isola di Manhattan gli ricordava un’immensa nave su cui quei migranti erano in attesa di capire che fine avrebbero fatto, quando sarebbero approdati nel futuro, nella vita più dignitosa che speravano di poter vivere una volta arrivati in America. Taranto, pure, in parte è un’isola. Ma stanno così tutti i migranti miei conterranei, gli evaporati che conosco, almeno quando partono. Scambi il tuo corpo col tuo futuro. È un sacrificio che fanno tutti. Ma forse lo fa anche chi resta qui, in fondo.
Certo, almeno tecnicamente Alessandro era un fuori sede, come ha ricordato il suo concittadino Salvatore Romeo in un articolo. Lo stesso Alessandro aveva scritto: “A Taranto (cosa che tutti i miei amici considerano assurda, e quelli più stretti l’indizio di qualche profondo trauma psicologico) ho ancora la residenza”. Lo aveva scritto nel suo Storia di Taranto, che si chiudeva a Paolo VI con la ricerca, vana, della scuola dove suo padre aveva insegnato, la stessa in cui aveva conosciuto il mio amico Antonio.
Forse più d’ogni altra manifestazione umana la scrittura è l’arte dell’incontro nel futuro. Io scrivo adesso, in questo momento, e so per certo che qualcuno mi leggerà domani. Incontreremo ancora Alessandro nella sua scrittura, anche questo è certo, e per il suo essere dedito sopra ogni altra cosa al lavoro, questo incontro ancora possibile non gli sarebbe dispiaciuto. Nel passato invece ho scritto una mail, doveva essere settembre 2017, in cui dicevo ad Alessandro che avrei voluto parlare con lui di una mia ricerca, tuttora in fase di elaborazione, su come è cambiata la Puglia negli ultimi vent’anni. Dopo la scomparsa di Guglielmo Minervini ho pensato che si poteva fare, si poteva iniziare a mettere nero su bianco cos’è successo in questa regione dalla metà degli anni ’90 in poi. Alessandro era nella lista di nomi che avevo buttato giù quest’estate. Per me non c’è fretta, magari ci vediamo quando sei a Taranto: così si chiudeva la mia mail, perché partivo dal presupposto che Alessandro era sempre in giro e sempre alla portata, in tutti i sensi.
Per questo, in chiesa, seguendo il gonfalone del liceo Archita verso il feretro, mi è sembrato impossibile associare il volto giovane, l’espressione mite e tranquilla di Alessandro al legno chiaro che giaceva davanti all’altare. È tutto vero quello che si è detto e scritto a proposito di Alessandro nei giorni successivi alla sua scomparsa: era buono, era serio, era rigoroso; fermo ma non rigido, radicale ma sempre lucido, ragionevole; tutto vero, anche che amava le cose di cui scriveva, che era una di quelle persone che aggiungono, sempre, senza togliere niente a nessuno, tantomeno al dibattito pubblico, una di quelle persone per niente tossiche, per niente velenose come invece siamo abituati ad aspettarci da chiunque finisca con l’affermarsi nel suo campo; tutto vero, ancora, pure le narici che si gonfiavano e l’arricciarsi del naso quando rideva, certe sillabe un po’ aspirate quando parlava, specie in pubblico, o alla radio.
Era vero, lo è tuttora, ciò che Stefano Leogrande ha scritto a proposito di suo figlio. “Alessandro, per me, era bellissimo. Alessandro era la Gioia che entrando in casa ci coinvolgeva e travolgeva, roboante e trascinante; ma era anche il lavoro fatto bene, analitico e profondo; tutto alla ricerca della verità; ed era anche la denuncia; fatta con lo stile dell’annuncio, che, nonostante tutto, un mondo migliore, è ancora possibile. Ho sempre percepito, orgogliosamente, che la Sua essenza fosse molto, ma molto migliore della mia. Oggi questo padre si sente orfano. Sento pesantemente scendere le ombre nella mia vita. Spero tanto nella Luminosa”.
Queste parole, per cui avevo deciso di essere a tutti i costi a Taranto il 2 dicembre 2017, sono state lette in chiesa. Le avevamo già stralette, tutti i presenti, tutti quanti, sui giornali e su Internet, ma nessuno ha retto, ed era giusto non reggere quando le ha pronunciate il parroco. Del funerale non voglio dire altro, non voglio rubare dolore né condivisione di quel dolore a nessuno dei presenti; ma devo raccontare almeno questo, e cioè che poi mi sono avvicinato a Stefano Leogrande, cosa che con tutta probabilità non avrei fatto per nessun altro orfano al mondo, e ho trovato un uomo piccolo di statura e tuttavia così forte, così potente nel suo dolore, così luminoso… Era bellissimo anche il papà di Alessandro: aveva una parola per tutti – ed erano tanti, erano infiniti – quelli che si avvicinavano per abbracciarlo, e quando gli ho sentito dire a un cugino: “La famiglia è un alveare”, ho pensato all’ape che mi si è avvicinata in via Lucania, e poi eccomi anch’io ad abbracciare Stefano Leogrande per portargli i saluti di Margherita e di Antonio, e lui a ricordarmi che Antonio l’aveva conosciuto prima lui di suo figlio, altroché!, Antonio che era stato un professore bravissimo della Ungaretti…
La scuola Ungaretti a Paolo VI non c’è più: lo raccontava lo stesso Alessandro nel suo Storia di Taranto, mentre nei dintorni restavano l’Ilva e l’ospedale dove avrebbe accompagnato suo padre per il primo giorno di chemioterapia.
Dopo il funerale, per qualche minuto sono rimasto imbambolato fuori dalla chiesa a guardare il nulla. Aspettavo qualcosa, anche se il mio senso di cacciatore suggeriva che non era lì che l’avrei trovata. Eppure restavo lì, a guardare le persone che lasciavano la chiesa, mentre qualcun altro più in là, verso il cinema, pure se ne stava in attesa che la vita riprendesse il suo corso. Dopo qualche minuto si sono avvicinati due amici di Alessandro, due amici di Roma che avevo incrociato la sera prima a Lecce; si sono avvicinati per salutarmi e mi hanno stretto forte, a lungo, e mi hanno tirato fuori quello che da solo, come sempre sono da solo ai funerali – solo e lucido, solo e razionale – non sarei riuscito a tirar fuori.
Questi due sconosciuti, perché in fondo tali erano – per quanto non lo sarebbero più stati – mi hanno fatto piangere a dirotto. Lo hanno capito senza dire nulla, che dovevano stringermi a loro e farmi piangere. Perché piangevo? In fondo loro avevano conosciuto Alessandro meglio di me e avevano tutto il diritto di piangerlo certamente più forte e più a lungo di me. Allora avrei voluto spiegarglielo: piangevo perché il lavoro di Alessandro, com’è stato giustamente scritto, era insostituibile; lo era per l’Italia, ma doppiamente per la Puglia. Da qui i migliori vanno via, com’è per tutte le terre d’emigrazione. Alessandro era ancora qui, ancora residente a Taranto, ancora a investire le sue energie migliori per la sua città, per la sua regione, a interrogarsi sulle stesse questioni per cui perdo il sonno anch’io, per cui mi chiedo che senso abbia restare qui a… Ma tutto questo non l’ho detto ai due amici di Alessandro: semplicemente, quando mi sono calmato gli ho chiesto se avessero qualcosa per il mio naso, perché ero riuscito in questo capolavoro di venire a Taranto il 2 dicembre 2017 senza portarmi dietro neppure mezzo straccio di fazzoletti.
Prima di lasciare il centro di Taranto ho pensato che fosse giusto, ancorché naturale, fare un salto alla Libreria Dickens, alle spalle della chiesa, che era anche la libreria di Alessandro. Andare lì e comprare un libro, ecco cos’era giusto e naturale fare. Quando sono arrivato c’erano altre persone che, come me, dopo la funzione avevano avuto la stessa idea. Erano lì e ricordavano un Alessandro ragazzino, rappresentante d’istituto e impegnato, nella sua “Stanza rossa”, a fare politica già al liceo… E poi l’incontro con Goffredo Fofi, l’arruolamento nelle sue riviste, i primi articoli, Internazionale, la radio, il suo essere sempre a disposizione della città anche quando era lontano. Discorsi che s’intrecciavano con quelli sull’Ilva, sulla politica cittadina, e ancora con la necessità di onorare subito la memoria di Alessandro senza farne un santo né un’icona. Io intanto sfogliavo Il naufragio, leggevo l’epigrafe affidata alle parole di Bob Dylan ripensando agli articoli che avevo letto e riletto in quei giorni, a La frontiera, a quella forma senza forma di Alessandro scrittore che era come una stoffa sottilissima che si adagiava sulla realtà per restituirla così com’era, senza tic stilistici di sorta, senza autocompiacimento… Alessandro, i suoi racconti corali, i romanzi di voci che anticipavano queste voci nella Libreria Dickens, il nostro rievocarlo in questi giorni tra amici e conoscenze comuni, in una comunità improvvisata e disseminata per tutta Italia che mai avrebbe voluto costituirsi e che pure l’ha fatto, dimostrando che la parola, il pensiero, il racconto sono tutto ciò che abbiamo.
I libri di Alessandro, la possibilità di incontrarlo ancora in futuro. Prima di recuperare l’auto e dirigermi verso Paolo VI sono entrato in un bar alle spalle della chiesa di San Roberto Bellarmino. All’ingresso sono stato investito da un tanfo di sudore d’ascelle colato e ormai asciugato da ore. La barista, una donna coi capelli giallo paglia, si chiedeva per chi fossero venute tutte quelle persone. Ha chiesto alla figlia, una ragazza sui venticinque, che stava mettendo ordine su un tavolo della saletta. Uno scrittore di Taranto, ho detto io, al banco. Questo qui?, ha chiesto la ragazza. Mi sono voltato. In mano aveva Lo Jonio, un giornale locale, che qualcuno aveva dimenticato su un tavolo. In copertina c’era il faccione di Alessandro sorridente, e poi: “Ciao Ale”. Sì, ho confermato, è lui. Cazzo, ma io ho letto i suoi libri, ha detto la ragazza, non è possibile.
Fin dal principio l’idea del cacciatore era quella di andare a Paolo VI, dopo il funerale. Andare alla ricerca della scuola senza la quale non avrei mai incontrato Alessandro. Andare lì e vedere coi miei occhi il nulla che lo stesso Alessandro aveva osservato nel finale del suo Storia di Taranto.
Un giro infinito di rampe mi porta da una parte all’altra della città. Su via della Transumanza ci sono le indicazioni per il call center Teleperformance, poi l’Ilva si avvicina di colpo, d’improvviso si fa più alta dei palazzoni di questo sobborgo partorito direttamente dalle viscere dell’acciaieria. Ma è meravigliosa anche in questo, Taranto. Nelle palazzine popolari scrostate dall’umido e dalla mancanza di qualsiasi cura, di manutenzione, di presenza umana che vada oltre la stretta sopravvivenza. Negli scooter che si inseguono a gran velocità sull’immenso stradone ai cui bordi sonnecchia il quartiere. Nella ruggine rossa della cancellata dell’aula bunker del tribunale. Nella modernità posticcia che arriva esclusivamente in forma di retorica architettonica degli edifici squadrati, con le infinite finestre a specchio che si stagliano sulla destra a schermare il cielo.
A un certo punto, quando inizia a diventare chiaro che non troverò il posto in cui un tempo c’era la scuola Ungaretti, seguo un’indicazione. C’è scritto Edicola. Mi infilo in una strada strettissima, proseguo piano tra altre palazzine e piazzole affollate di auto, più in là ampi squarci di questo cielo grigio che s’insatura in ciano, e poi finalmente eccola, l’edicola, una signora piccoletta coi capelli nerissimi è appena uscita e sta abbassando la saracinesca. Trovo un buco, parcheggio, corro verso di lei, le chiedo una copia de Lo Jonio, andato esaurito nel resto della città. Lei mi guarda sospettosa. Mai preso in vita mia, dice. Si stringe nel cappotto, torna di spalle e finisce di abbassare la saracinesca. Poi si infila in auto, lo stesso faccio anch’io.
Torno sullo stradone, proseguo ancora verso Montemesola, vedo la fine della città nel centro commerciale La Mongolfiera. Decido di tornare indietro, così entro nel parcheggio di questo vecchio dinosauro di cemento addormentato ai piedi del quartiere, riscaldato appena dai colori accesi del tendone del Circo Orfei posizionato all’ingresso. Faccio inversione e ripercorro il quartiere in direzione opposta, verso Brindisi. Adesso, in prospettiva, le ciminiere sono ancora più alte di prima. Del fumo nero esce dal comignolo di quella più imponente per salire a condensarsi in una nuvola dal sottopancia di grani scuri che se ne sta esatta sui palazzoni più moderni. Proseguo nel silenzio e nell’immobilità elettrica, carica di pioggia non piovuta nella controra del quartiere, finché sul prato alla mia destra non noto qualcosa di colorato. Giallo, rosso, viola, blu sullo sfondo verde acceso. Rallento, mi fermo. Sono fiori, vasi, fotografie, madonnine di gesso o di plastica. Tanti piccoli ricordi, di quelli che si lasciano sul ciglio del marciapiede per i morti d’incidente stradale, che si inoltrano nel prato a formare un breve sentiero verso un altare. Non so in memoria di chi o cosa sia stato improvvisato quest’altare, però di fatto guarda l’Ilva. Di fatto guarda l’Ilva, mi dico, e di colpo realizzo cos’ha visto Alessandro quel giorno, mentre scriveva e riscriveva mentalmente la sua storia di Taranto, la stessa in cui ci saremmo incontrati ancora negli anni.
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(La foto di copertina è stata scattata da Gabriele Fanelli il 27 dicembre 2015 a Francavilla Fontana, in occasione della presentazione de La frontiera alla Libreria Francavillese.)
Sono vuoti incolmabili ma, prima o poi, abitabili. Parole, a me, evocative, grazie
…commento raramente. Grazie per il bel ricordo. Per l’amore per Taranto come forse molti di noi neanche ne sono capaci. Per quell’edicola che adesso ha un colore in più. Quello tuo.