Dio mi sta dentro, disse.
Le avevo chiesto perché da qualche tempo avesse deciso di rendere di dominio pubblico il suo corpo. Deciso, esatto: perché era una cosa che prima della notizia del bimbo non aveva fatto mai.
E così tutti adesso conoscevano la linea del seno – e le linee, altrettanto morbide, che sullo sterno separavano una mammella dall’altra – la gobbetta della pancia in progresso di vita, l’acuto dello spazio tra i fianchi che restringendosi si chiudeva a V sul sesso, lasciandolo intuire glabro, mai ruvido, già pronto.
Perché adesso Dio mi sta dentro acquattato, sorrise alle mie insistenze. Perché adesso è osso attorno al quale ricresce della carne-membrana insperata, impossibile.
Lei spiegava e sapevo tutto di lei: le venuzze sul collo del piede; un neo sul palmo della mano, pianeta disperso dalla costellazione che si spiegava invece fitta tra le scapole; una voglia sull’interno della coscia destra a forma di flutto – tutto, lo sapevo io come ognuno tra quelli che la guardavano spogliarsi di giorno in giorno in questa sua nuova declinazione di vetrina permanente.
Non è più mio, questo corpo, non più desiderabile per me o per te soltanto. Insisteva col desiderio onirico, indesiderabile se non ricondotto all’etimo di stelle. Non guardano più me ma l’involucro dell’uovo, del verrà, del sarà… Sono un ponte, diceva, le scappava da ridere e se si tratteneva era solo per non offendere qualcosa di me ancora da scavare, ignoto pure a me stesso. Non sapevo più leggerla a fondo perché non era più desiderabile senza desiderarne un pezzetto non ottenibile, non più associabile alla moneta corrente del desiderio tra uomo e donna? Scoppiò a ridere, alla fine, ripetendo: Dio mi sta dentro, ma dentro a niente, se guardi bene sono di vetro, chiusa e sconclusa, cinghia e membrana di trasmissione, prolungamento di una storia-rigagnolo tra ghiaia e molo, porto d’approdo, partenza.
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Guglielmo Soga | Casa di Dio
Dio che meraviglia Marco…