Si sta parlando molto, e a ragione, dell’ultimo libro di Emanuele Trevi, Sogni e favole. Tempo fa su minima&moralia abbiamo ripreso l’intervento di Gianluigi Simonetti apparso sul Sole 24 Ore, ma sarebbero da segnalare anche gli approfondimenti di Demetrio Paolin su Esquire e Paolo Gervasi su Doppiozero.

Prima di passare alle mie domande a Emanuele Trevi, mi limito a dire che Sogni e favole è un libro molto stratificato, composto soprattutto di ritratti (Arturo Patten, Amelia Rosselli, Metastasio, Cesare Garboli ma anche Roma). Come ha fatto notare Demetrio Paolin nel suo articolo, sulla natura dell’opera è l’editore stesso, Ponte alle Grazie, a confondere un po’ le idee: in copertina c’è scritto “romanzo”, in quarta invece “quasi-romanzo” e ancora “il nuovo libro strano di Emanele Trevi”. Tuttavia, se partiamo dal presupposto che i romanzi non sono solo intreccio o trama ben orchestrata (con tutto il rispetto per chi così li intende) quanto, come si suol dire, creature onnivore, che tutto ruminano e risputano, e ancora luoghi ideali, per spazio e volume, per andare da nessuna parte e dunque dappertutto, pur sempre raccontando –  allora sì, quello di Trevi è un romanzo, e lo è a tutti gli effetti. Molto stratificato, dicevo, ma non per questo particolarmente ostico: Sogni e favole si lascia leggere con estremo piacere, ed è molto facile affezionarcisi.

I temi toccati dal libro sono molti, anche al di là dei ritratti cui accennavo. Non tutti sono stati toccati nel corso della conversazione che segue: prima di procedere, aggiungo che su queste pagine è possibile trovare un approfondimento di Giorgia Antonelli su Gertrude Stein, la quale ebbe proprio con la scrittura di ritratti un rapporto molto in linea, a parer mio, col lavoro di Trevi. E ora, via con l’intervista.

MM: Verso lo scioglimento di Sogni e favole scrivi: “Volevo tentare un ibrido tra il saggio letterario e la seduta spiritica: due nobili arti passate di moda”. Ci sono molte pagine sui fantasmi, nel tuo libro, però la sensazione è che i fantasmi siano i vivi, in particolare l’Emanuele Trevi che racconta. Infatti aggiungi: “La verità è che incombe sempre sul vivo il compito di battere un colpo”. Com’è stato battere questi colpi, com’è stato scrivere questa seduta spiritica?

ET: In quanto figure del ricordo, o dell’immaginazione (non ci vedo una grande differenza!) i personaggi di una scrittura letteraria sono sempre degli spettri da invocare, da convocare. Se ricordi quel passo famoso dell’Odissea che racconta la discesa di Ulisse nell’Ade, c’è una specie di esca, il vivo offre al morto del sangue fresco da bere, e così lo attira momentaneamente nel vecchio cerchio della vita (o se preferisci del linguaggio). A un certo punto del libro, però, dico che anche i vivi vanno evocati, non sono meno sfuggenti e ambigui nel loro manifestarsi. In questo senso, lo spiritismo e la critica letteraria sono due arti davvero gemelle, che procedono dall’assenza a una presenza momentanea, del tutto fittizia ed opinabile. Ovviamente mi riferisco a un certo tipo di critica “all’antica”, per così dire, che è il genere che prediligo: il ritratto dotato di forti componenti narrative. Il ritratto di Walter Benjamin di Hannah Arendt, per fare un esempio tra mille, o quello di Filippo De Pisis di Giovanni Comisso. Quanto a me, se mi chiedi “come è stato”, posso dirti che da sempre il mio metodo consiste in un’applicazione quotidiana, non più di un paio d’ore al giorno. I fantasmi sfibrano. Però magari poi fai un’altra cosa e anche quella collabora al tuo progetto in maniera repentina e sorprendente.

MM: Parlando di ritratti: mi chiedo se il ritratto letterario, nel presupporre sempre un rapporto con l’immagine (reale o mediata), non rappresenti una possibilità di scrittura particolarmente interessante in un’epoca che veicola, almeno in apparenza, soprattutto immagini. Una sorta di traduzione, che abbia a che fare un po’ con la critica e un po’ col racconto.

ET: Sono d’accordo, si tratta sempre di tradurre un’immagine. Però bisogna considerare che un’immagine agisce immediatamente, mentre le arti narrative si dispiegano nel tempo, quindi il ritratto si crea poco a poco, riga dopo riga, fino all’ultima parola, al termine della visione. Inoltre, quando si parla di scrittura, bisogna sempre ricordarsi che è un’arte speciale, basata in gran parte sulla possibilità che il lettore collabori, completi l’opera. La straordinaria povertà di mezzi che la lingua possiede per rendere conto dell’infinità varietà dei volti umani è un limite che si trasforma in un vantaggio, permette una grande fluidità dell’immaginazione. Volentieri io accompagno delle immagini ai miei testi, perché questo si accorda a un certo gusto documentario e alle possibilità estetiche delle riproduzioni in bianco e nero – in fondo appartengo a una generazione che ha letto Nadja di Breton come il Vangelo! Però sono consapevole di un rischio: se abuso delle immagini, boicotto il meccanismo dell’immaginazione, vanifico il mio sforzo. In questo senso credo che bisogna sempre ricordarsi della lezione di Roland Barthes nella Camera chiara: tra tutte le foto che mostra, manca proprio la più importante (il ritratto della madre) – e questa omissione tiene insieme il libro dal punto di vista poetico.

MM: Nel libro esprimi un’idea molto commovente sull’eredità, sulla trasmissione letteraria (o “telepatia imperfetta”, per citare un’altra tua intervista). Garboli che dona argomenti per libri che non farà in tempo a scrivere, Amelia Rosselli che ti regala il libro sui Pitagorici, e ancora certe intuizioni poetiche che si trasmettono nei secoli, da mente a mente.

ET: Devo dirti che sono sempre stato profondamente influenzato da un romanzo che considero tra i cinque-sei più importanti che ho letto nella vita, Il dono di Humboldt di Saul Bellow. È una storia meravigliosa, rivelatrice. Più in generale, credo che noi riceviamo e a nostra volta trasmettiamo delle eredità tanto più importanti quanto più imperfette. Perché non trasmettiamo solo quello che abbiamo capito (come vorrebbe un’idea astratta e puramente addizionale di “cultura”) ma anche quello che non siamo riusciti a capire.

MM: Amelia Rosselli, “buco nero sociale” la definisci tu, sembra vivere in un romanzo di Philip K. Dick. Ho percepito la sua forza ascoltandola su Youtube: il ritmo che imprime ai versi, le parole lasciate appese in fin di frase e l’impressione improvvisa di trovarsi sospesi sull’abisso del canyon come Wile Coyote – un’immagine cartoonesca che hai usato nel libro per descrivere il momento in cui il poeta “vede” la verità oltre la vita, oltre la finzione.

ET: Mi fai pensare a una cosa che non avevo preventivato scrivendo il libro: Wile Coyote (come tutti gli altri personaggi dei cartoon) precipita in un canyon, o dall’ultimo piano di un grattacielo, ma non si fa nulla. Amelia Rosselli, al contrario, si butta dalla finestra e ovviamente muore. Per sopravvivere, un bambino deve imparare a non essere un cartoon. Eppure, a un livello di verità più profondo e pericoloso, siamo tutti dei cartoon!!! Non ci liberiamo mai dell’irrealtà che ci costituisce. Una grande poetessa come Amelia Rosselli, con tutta la sua unicità, rende manifesta una latenza universale.

MM: A proposito di latenze: non sono sicuro che l’Emanuele Trevi che racconta in Sogni e favole sia lo stesso che risponde a queste domande, ma tutto sommato non credo sia poi così importante. Forse, un po’ come per i ritratti di Arturo Patten secondo Russell Banks, il punto non è trovare l’uomo dietro la maschera dello scrittore, tra le pagine del libro, quanto l’interazione tra maschera e volto, il processo di creazione dell’io attraverso la finzione. La verità, se c’è, è nello sguardo, forse il vero Emanuele Trevi è nello sguardo con cui racconta.

Sai, questo è un tema che può dar luogo a discussioni filosofiche infinite. Come facciamo a stabilire qual è il vero Emanuele Trevi, ammesso, come dici tu, che la cosa abbia una qualunque importanza? Non siamo mai veri e nello stesso tempo siamo veri anche quando mentiamo. Da un punto di vista empirico e non filosofico, però, io sono attratto dalle persone che non nascondono il proprio desiderio, non hanno paura di mostrarlo, e in questo modo realizzano l’oracolo delfico, conosci-te-stesso. Quanto allo sguardo, certo, è lì che si manifesta l’identità, in contrasto con le persone che descrive. Se parlo di un aspetto del mio carattere, è per fare emergere meglio qualcosa che mi manca e che invece vedo nell’altro. In teoria potrei cercare una specie di oggettività, ma è come se, in quel caso, il ritratto rimanesse fermo, snervato.

(Questo articolo è apparso il 27 febbraio 2019 su minima&moralia. Fonte foto)