Parte molto lento, Roma, soffermandosi a lungo sui fatterelli quotidiani di una famiglia borghese del quartiere Colonia Roma, Città del Messico, negli anni ’70. All’inizio seguiamo soprattutto le faccende di Adela e Cleo, domestiche indie della famiglia, e il rapporto tra le due: Adela è quella più esperta, Cleo invece sta ancora provando a farsi una vita fuori dal lavoro. Per il resto: attenta al cane Borras, lava a terra, cucina, occhio alle quattro pesti che gironzolano per casa, il tè per padron Antonio è pronto?, donna Sofia è rientrata?
Per un’ora abbondante – sulle due e quindici complessive – Alfonso Cuarón gioca su una dimensione di visione pura, di antiracconto quasi documentaristico (intendendo qui il documentario di stampo classico). Lo fa con una tecnica notevole, mai preda del demone del virtuosismo: campi lunghi, piani sequenza, grande attenzione per la composizione di ogni singola inquadratura, del montaggio interno. Ma soprattutto la splendida fotografia in bianco e nero che cattura e fa entrare la luce, la profondità di campo e i rumori di fondo – complici l’assenza di musica extradiegetica e i dialoghi molto stringati – suggeriscono l’esistenza di un mondo vivo e brulicante sullo schermo, anche al di là delle vicende di Cleo e famiglia. Sembra quasi che stia a noi cercare il senso della visione, scegliendo cosa seguire all’interno dell’inquadratura (i passanti, le auto, gli sposini, i venditori, le frequenze radio disturbate, i tantissimi animali che zampettano qui e lì per tutto il film). Per almeno metà pellicola, insomma, tutto è piacevole e sonnecchiante: se qualcuno non gradisce e si addormenta non c’è da biasimarlo.
Poi qualcosa inizia piano a incrinarsi. Cleo, la dolce Cleo che si fa in quattro per la famiglia di donna Sofia e padron Antonio, sospetta di essere incinta. L’amante è un altro indio, Fermín, fissato con le arti marziali. Abbandonerà Cleo non appena saputo del guaio potenziale, al cinema[1], di punto in bianco. Da quell’episodio in poi Roma racconta la dolorosa discesa di Cleo dentro di sé, sconfessando al contempo l’idea di non possedere alcuna natura di racconto. La struttura narrativa inizia a manifestarsi attraverso dei presagi, e dunque dei simboli, che Cuarón dissemina a partire dalla scena del terremoto, all’incirca a metà del film. Cleo è all’ospedale per dei controlli: lasciata sola da donna Sofia, osserva i neonati al di là del vetro e pensa al bambino che – ne ha appena avuto conferma – porta in grembo. La terra inizia a tremare e lei resta lì, immobile e indecisa se accodarsi al fuggifuggi generale o acquattarsi in un angolo, finché non torna la calma. Oltre il vetro, dei calcinacci sono caduti sull’incubatrice: all’interno c’è un neonato.
Dopo questa scena i simboli e i presagi aumentano, accumulandosi uno sull’altro: le auto incidentate, le croci, il bicchiere rotto a Capodanno, l’incendio, le teste di cani impagliate e appese al muro… Senza dimenticare la stessa Cleo che fa da intermediario tra il regno dei vivi e quello dei morti, frequentando sia il mondo ricco e bianco della borghesia messicana che l’inframondo della servitù composto dai discendenti degli indios; senza dimenticare neppure il doppio di Cleo, donna Sofia, abbandonata anche lei, insieme ai quattro figli, dal marito Antonio.
La catabasi di Cleo coincide dunque con la nostra discesa verso il cuore di Roma. Realizziamo, anche noi per gradi, che Cuarón si è preso tutto il tempo necessario per iniziare a raccontare la sua storia, che ci ha tirato dentro con la tecnica per poter passare dal piacere della pura visione cinematografica a qualcosa di più intenso. Un intento che diventa chiaro quando Cleo si inoltra nella periferia di Città del Messico alla ricerca di Fermín, in una delle sequenze più buffe, grottesche e visivamente spettacolari del film; e ancor più nella scena del negozio di culle.
Qui Cuarón fa ricorso tanto al romanzesco quanto al pieno sfruttamento dello scenario, degli eventi storici in cui è immerso Roma. Cleo e l’anziana madre di donna Sofia raggiungono il negozio di culle per scegliere quella più adatta per il nascituro. Nel quartiere intanto esplodono gli scontri tra manifestanti e paramilitari: dopo le violenze per strada, vediamo questi ultimi fare irruzione nel negozio all’inseguimento di una coppia di dissidenti. Tra i paramilitari c’è anche Fermín: ecco l’intreccio, il romanzesco che sfocia nella coincidenza più assurda, quasi incredibile. Il giovane riconosce Cleo, le punta la pistola contro, osserva il pancione: forse sta pensando di spararle. Poi uno dei manifestanti viene ucciso a colpi di rivoltella dai camerati di Fermín, e così quest’ultimo, motore involontario di quanto accadrà in seguito, preferisce tagliare la corda. A Cleo, rimasta immobile in stato di shock accanto alla nonna, si rompono le acque. Lo sfondo di eventi storici – il Messico dei grandi cambiamenti politici degli anni ’70 – ha appena fatto irruzione con uno scoppio di violenza inaudita, ma senza alcuna forzatura, senza il minimo didascalismo.
La sequenza successiva è ancora più cruda e dolorosa. Cleo viene portata in ospedale tra le lacrime della nonna e la tensione dell’autista. Subito dopo il parto, l’inquadratura fissa ci restituisce il primo piano della domestica sofferente sul lettino, mentre la figura del pediatra che tenta di rianimare la bimba resta sfocata sullo sfondo. In questo caso la profondità di campo è abolita: la bimba, ormai morta, è a fuoco solo quando viene data in braccio a Cleo; la vediamo tornare oltre il velo del secondo piano sotto le gelide cure del pediatra: è quasi invisibile mentre il dottore la fascia con gesti meccanici, abituati alla morte bambina. Il contrasto col resto del film è forte, dal momento che per quasi un’ora e mezza ci eravamo abituati a esplorare liberamente qualsiasi oggetto o persona perfettamente a fuoco sullo schermo.
Proprio la crudezza di questo episodio prepara il campo alla scena madre – è il caso di dire – di Roma. Per superare il suo dolore per l’abbandono del marito e quello di Cleo per la perdita della bimba, donna Sofia propone una gita al mare alla domestica e ai ragazzi. Nel corso della vacanza annuncia ai figli che padron Antonio non tornerà più: ormai vive altrove (noi spettatori lo sappiamo già), e in quelle ore passerà da casa per raccogliere la sua roba. Il giorno successivo tre dei ragazzi, decisamente irrequieti, disobbediscono alla madre e si tuffano nell’oceano agitato. Un lungo piano sequenza ci mostra Cleo che si avvicina a riva per richiamarli. Se la scena del parto non fosse stata così dura, con tutta probabilità noi non staremmo dalla parte di Cleo, non staremmo col fiato sospeso quando lei – che non sa nuotare – si avventura in acqua per raggiungere i ragazzi che rischiano di affogare; non solo, se non fosse stato per quella scena, noi non staremmo col fiato sospeso per lo stesso film: se dovesse morire, se dovessimo perdere qualcun altro – la stessa Cleo o uno dei bambini – a quel punto Roma“spezzerebbe”, per dirla con Woody Allen[2]. Le cose però vanno diversamente.
Una volta riportati a riva i bambini, donna Sofia e il figlio rimasto sulla terraferma corrono verso Cleo e gli altri piccoli. “Non la volevo”, “Non la volevo”, non fa che ripetere Cleo in lacrime, stretta nell’abbraccio con Sofia e i ragazzi. La tensione accumulata nell’ultima ora di Roma rischiava di collassare nella perdita di un altro bambino o della stessa Cleo, ovvero nella perdita e nello scollamento di un film che sarebbe risultato troppo tragico per essere creduto; si risolve al contrario nello scioglimento dell’opera intera: l’abbraccio a cui assistiamo è lungo, bellissimo, commovente, e segna il riscatto e la fine della discesa di Cleo, che insieme a quella che è ormai la sua famiglia può superare l’umiliazione e il senso di colpa per essere rimasta incinta, da sola, e per giunta aver perduto la bimba. Col rischio di risultare zuccheroso o retorico potrei aggiungere che quell’abbraccio supera le differenze di classe e di etnia, coinvolgendo peraltro due donne rimaste sole in un’epoca e in un Paese che definire maschilisti è un eufemismo. È un rischio che mi prendo volentieri, ben consapevole che in compenso la pellicola non lo corre affatto: alla pari del Messico degli anni ’70 – come abbiamo visto mostrato attraverso le vite dei protagonisti, più che detto – in Roma è assente ogni didascalia, ogni direzione anche lontanamente prossima a uno slogan politico.
Nell’ultima sequenza, Cleo appare finalmente serena. Di sicuro è cresciuta: alle spalle adesso ha dei guai passati da riferire al calduccio di giorni più tranquilli, per citare Primo Levi, e infatti confida ad Adela di avere un sacco di cose da raccontarle. I titoli di coda scorrono in silenzio sulla terrazza della casa di donna Sofia. Un po’ storditi di fronte all’apparente ritorno alla quotidianità dell’inizio, invero profondamente mutata, realizziamo che Roma è un’opera sulla memoria privata che ha la forza di diventare racconto pubblico. Lo è grazie alla cura con cui questa memoria viene rimessa in circolo: la cura per i dettagli, quella per la tecnica che non è mai un vezzo quanto l’articolazione di una lingua che arriva a toccare il cuore degli spettatori più pazienti. La stessa scelta del bianco e nero, ha raccontato Cuarón in diverse interviste, era necessaria per ricordare soprattutto a lui che quel Messico non esiste più: il negozio di culle, ad esempio, oggi è una palestra. Dobbiamo credergli: non perché le vicende alla base di Roma siano vere – Cleo, interpretata dalla splendida non professionista Yalitza Aparicio, esiste ed è ancora viva, si chiama Libo e Cuarón l’ha riascoltata per scrivere la storia; dobbiamo credergli perché Roma è un film che chiede fiducia e pazienza, molta pazienza: ma poi ti ripaga. Con cosa? Con una moneta che non è la stessa richiesta all’ingresso, non solo cioè col cinema come piacere puramente estetico. No, Roma ti ripaga con la gioia, a patto di riuscire a sopportarla, se la gioia è un sentimento che necessita di dolore, della consapevolezza che qualcosa può sempre andare perduto, ogni tanto riguadagnato.
–
[1] In un’altra scena al cinema Cuarón si diverte a inserire un’autocitazione: i figli di donna Sofia sono in sala a guardare Abbandonati nello spazio (1969) di John Sturges, evidente riferimento per Gravity (2013) dello stesso Cuarón.
[2] “Se piega fa ridere, se spezza non fa ridere” dice grossomodo Woody Allen a proposito del comico. In questo caso di comico non c’è nulla, ma potremmo concludere che il tragico funziona allo stesso modo: se spezza, se è eccessivo, non fa il suo dovere, annaspando nel patetico o, peggio ancora, nella comicità involontaria.
(Questo articolo è apparso per la prima volta su Minima&Moralia il 21 dicembre 2018.)