Io Céline non è che l’ho proprio letto; diciamo che mi arriva spesso per interposta persona, come una di quelle nuove amicizie che stanno nell’aria (amici di altri amici), di cui sai già di aver stima (probabilmente è reciproca) ma che poi non si avverano mai. L’altro giorno ho sentito che Céline consiglia di non chiedere alla gente come sta, ma se dorme. Mi sembra molto appropriato. E per dormire ci vuole un tetto. Almeno una camera. Ecco, le camere dovrebbero servire solo per dormire.

Di solito non parlo delle cose che faccio in giro su questo blog. Stavolta approfitto di una cosa che farò domani, a Lecce, che si chiama A room with a view/Una generazione in cameretta, per esprimere delle teorie cui tengo molto. La serata dovrebbe funzionare in questo modo: siamo in un appartamento o in una stanza e ognuno porta le cose che fa. Io leggo, Oh Petroleum suona, Ennio mette i dischi e il signor Montagna (mi piace che abbiamo la montagna e il montanaro) dipinge.

Voglio dire che l’idea di generazione in cameretta, per quanto amara e vera, mi rappresenta fino a un certo punto. Come molti faccio fatica a uscire dalla stanza in cui sto scrivendo ora. Ma non la definirei cameretta, come fosse la mia stanza da adolescente, perché non mi ci trovo a mio agio. Non sono un gran viaggiatore, non mi sento a casa fuori di qui; ma neppure qui. La mia casa è la lingua, la lingua che abito. E le cose che scrivo e che leggerò domani nascono qui per un fatto puramente materiale, diciamo (ho un pc portatile che si dà arie da fisso). In genere le concepisco fuori, mentre guido e cerco di non investire bambini e gatti (soprattutto, i bambini che attraversano la strada come gatti, che appena vedono un’auto – chissà perché – pensano che quello sia il momento giusto per passare il Rubicone).

Be’, comunque la verità è che amo molto tutto ciò che è intimo. Viaggio più tra gli animi umani che su strada. Amo molto ciò che è privato, nella doppia accezione di intimo, appunto, e, più o meno, di «cosa di cui bisogna imparare a fare a meno». Sono innamorato di tutto ciò che è domestico, perché in qualche modo è addomesticato o addomesticabile. Animali, dolori e amori domestici, l’alcolismo domestico. Il mio spirito è molto più vicino a quello di una casalinga che a quello di uno scrittore. Ho scritto di molte scatole e stanze vuote, per anni, e adesso non vorrei più. Ma è stato inevitabile. Ad oggi penso ancora che si tratti di porte dimensionali. Vengono a trovarti un mucchio di persone, nelle stanze vuote, anche solo in forma ectoplasmica. Il punto è che spesso non le hai invitate. E hanno difficoltà ad andar via. Stanno lì e ti guardano, chiedono conto, fino a scadere come uno yogurt. Certi fantasmi sono scaduti e non lo sanno. A loro credo che dedicherò un pezzo, domani sera, per spiegare che è meglio andare, alle volte, perché il tempo è come certi culi: spesso stringe.

[In ogni caso il 27 novembre sono a Campi Salentina alla Città del Libro a fare un’altra cosa con la voce che non ho ben capito ancora. Credo che si parli di Poesia e Crisi, tutto è capire se mi hanno invitato come esperto dell’una o dell’altra cosa.]