Tempo fa mi sorprendevo spesso a pensare che l’11 settembre fosse una sorta di simbolo utile a spiegare un particolare momento di caduta, sconfitta totale e morale e su ogni fronte per ciascuno di noi. Ammetto di essermene andato in giro per un po’ a dire che “ognuno ha il suo undici settembre”.
Be’, poi è arrivata la crisi e dunque adesso trovo altrettanto divertente raccontare la storiella per cui “ognuno ha il suo ‘29”.
Comunque. Sento di dover tacere ancora un po’ sul mio personalissimo 11 settembre e sul mio altrettanto personale ‘29. Non credo abbiano molta importanza e in ogni caso tento ancora di essere una persona discreta sebbene le mie miserie abbiano ormai ben poco di privato; del resto devo anche dire di trovarmi in uno di quei rari momenti in cui tutto di me è pubblico e, davvero per una volta nella vita, non ho molto da nascondere. Direi quasi nulla. Questo mi rende molto poco interessante, in effetti.
Stando a questioni più generali, devo dire di non aver usato l’aggettivo interessante per caso. Avrei potuto anche dire desiderabile o, perché no, appetibile. Adesso userò il passato per spiegare quello che ho in mente e lo farò per due ragioni che mi paiono, va da sé, piuttosto ragionevoli: da un lato il passato, inteso come verbo, è decisamente passato, e dunque posso giovarmene in funzione apotropaica (credo che molte delle cose che faccio o scrivo abbiano questa funzione: allontanare da me cose di me e del mio immaginario che non so digerire o gestire, mettiamola così); e da un altro il passato tornerà utile per dare una sorta di autorevolezza a quello che sto per dire. Se lo dicessi al presente, be’, finirei decisamente col sembrare un pornografo nichilista. Ma sono troppo noioso per esserlo davvero, giuro. E giuro anche che sto per farlo, sto per dirlo sul serio, quello che ho in mente.
Ecco:

E così durante quel freddo e grigio ‘29 molti di noi trovarono un’adeguata soluzione alla mancanza di liquidità imparando a vivere non di danaro ma di appagamento; in altri termini apparve molto più razionale rendersi in qualche modo desiderabili piuttosto che occupati o impegnati in qualsiasi attività umana che avesse alcunché di tradizionale; rendersi desiderabili era il modo migliore per stare perennemente sul mercato, disponibili al pari di materie prime come l’oro o il carbone in passato, e poter esser colti in qualsiasi momento dall’azienda o dall’ego altrui di turno. Eravamo noi la merce, l’oggetto del desiderio, ed eravamo dannatamente appetibili, sì.
In questo e nessun altro modo potevamo rappresentarci: per la tv, la stampa, i social network, il datore di lavoro o i nostri insegnanti e genitori, verso un’intera generazione che in qualche modo decideva ancora per noi; certo era imbarazzante dirlo in giro: in fondo eravamo adulti da un pezzo ed era abbastanza dura ammettere che ci prostituivamo per appagare appetiti da secolo scorso. Ecco, forse era solo un po’ buffo. Ma era così che funzionava e la battaglia, tutto sommato, nonostante la smaterializzazione di molti aspetti delle nostre vite, si giocava ancora sui nostri corpi. Era il nostro corpo che in qualche modo guidava l’altrui appetito verso quello che (non) eravamo dentro di noi. Verso quello che avrebbe potuto rappresentarci nel mondo del lavoro, faccio un esempio, o più in generale nella vita. Dovevamo essere belli. Era un dovere, certo, e tutti noi eravamo piuttosto in gamba nel rispettarlo. Il ragionamento era più o meno questo: “D’accordo, non avrò un lavoro o una pensione o una vita tutta mia, ma almeno scopami”. In fondo avevamo imparato fin da bambini. A chi non piaceva scopare? Ma non è questo il punto. Il punto è che comunque non ci filava nessuno. Nessuno ci prendeva sul serio. I vecchi parrucconi nelle università e negli ambienti che contavano, così come i proprietari d’immobili, i datori di lavoro e i politici, ci scopavano un po’ e poi ci lasciavano andare. Cosicché tutto sembrava votato a una sorta di autismo relazionale o alla masturbazione piuttosto che a qualcosa che, come dire – be’, diciamo qualcosa capace di sopravvivere alla notte. Tuttavia la moda del tempo era chiavare per cui non c’era anima che non s’illudesse di chiavare o di esser chiavata a tutti gli effetti. Be’, ce ne saremmo accorti solo dopo di come stavano realmente le cose.
Adesso devo dire in qualche modo di me. Al tempo ero convinto che la cosa più importante fosse innamorarsi delle cose e delle persone. Ero troppo giovane per apparire come un residuato hippy e troppo vecchio per fare il neosensibilista indie. Per cui non c’era molta retorica dietro alle mie teorie. Va detto insomma che non m’innamoravo per chissà quale bontà d’animo: ero convinto che tutto ciò che non fosse mosso d’amore o genuina curiosità rappresentasse un grave pericolo per l’economia mondiale. C’era un ragionamento scientifico dietro quello che propinavo alla gente, ecco. Devo però anche dire che la mia reputazione non era certo alle stelle per questo mio modo di vedere le cose. Avevo fatto finta d’essere altro per cui non è che si credesse molto a questa mia teoria sull’amore. Un vecchio poeta del secolo prima (anche lui veniva da laggiù!) aveva scritto che nella vita si è quel che si fa finta di essere, dunque bisognerebbe stare molto attenti a quel che si fa finta di essere. In effetti avevo fatto finta di essere uno che chiavava e veniva chiavato e dunque non potevo certo prendermela se qualcuno non credeva alle mie teorie sull’amore. Dunque passai anch’io alla storia come chiavato e chiavatore, almeno per un po’, finché non iniziai a pensare a una soluzione tutta mia. Tra quelle che presi subito in esame c’era la possibilità di rivelare al mondo intero che al posto del pene avevo un piccolo megafono da cui si poteva ascoltare in continuazione The Lotus Eaters di Alfred Tennyson recitata da Gary Oldman; ma non volevo passare per pornografo oltre il dovuto. E poi le questioni legate a cazzi e fiche avevano smesso di esser considerate realmente pornografiche da un bel po’. Del resto proprio in quegli anni l’umanità aveva raggiunto un insolito primato tra le specie che abitavano la terra: dopo aver scoperto che l’atto della riproduzione era a sua volta riproducibile all’infinito come milioni di altri avvenimenti tipicamente animali a mezzo di macchine fotografiche o telecamere o altri ammennicoli tecnologici, e dopo aver scoperto che osservare quell’atto poteva stimolare una strana forma di eccitazione solo negli esseri umani, adesso l’intera razza cominciava a trovare noiosa anche tutta questa roba (pratica che, per inciso, rappresentava ormai lo standard in fatto di pornografia classica e che aveva mandato in soffitta millenni di pornografia antica); così adesso ci si dedicava ad altri tipi di sconcezze. Tornando a me, abbandonai presto l’idea di parlare in giro del mio pene. Così la seconda ipotesi circa il mio nuovo-stare-al-mondo era: diventare ogni giorno più brutto. Stare sul mercato da brutto finché il mercato stesso non avrebbe potuto far altro che espellermi. Mi interrogai a lungo sul metodo (anche a quel tempo la vita era soprattutto questione di metodo) e per un po’ mi trascinai nel mondo scoreggiando, ruttando e dicendo porcherie gratuite. Poi, va da sé, mi innamorai di una donna molta deliziosa e giunsi alla conclusione che se una donna del genere aveva deciso di stare con me, allora il mio scoreggiare e ruttare e dire porcherie gratuite non era il metodo più appropriato per rendermi più brutto e dunque invendibile; provai col crescermi la barba ma conclusi presto che pure quella non era una gran mossa: a quel tempo portare la barba andava piuttosto di moda e dunque non rappresentava un tipico esempio di bruttezza (la stessa cosa era accaduta prima coi baffi e in seguito così sarebbe stato anche coi peli sulle spalle). Provai coi capelli e con le camicie eccentriche e mi avvicinai all’obiettivo, giacché i miei capelli, cresciuti oltre un certo limite, rassomigliavano molto al nido d’un aquila reale delle Bermuda; e così le mie camicie: all’epoca nessuno perdonava le camicie stravaganti indossate da non-artisti (va detto che un’altra soluzione di successo per la crisi fu: rendersi artisti. Eravamo tutti artisti delle nostre vite, la materia era la vita stessa, ecco tutto). Per farla breve, arrivai alla conclusione che non bastava rendermi brutto da un mero punto di vista estetico: dovevo ambire a qualcosa di più. Così decisi che non avrei posseduto niente. Ero brutto fuori (in effetti giunsi a rasarmi solo sul cranio, lasciandomi dei ciuffi di capelli di lato alla testa per apparire più anziano, e questo, in effetti, non mi fu perdonato da nessuno) ma dovevo esserlo fin dentro le mutande, passando per il cuore e la coscienza (che dovrebbe trovarsi, secondo i miei calcoli, più o meno nei dintorni della valvola ileo-cecale). Non avrei posseduto nulla: niente automobili, abitazioni, stereo, tv al plasma, e così via. Dopodiché mi dedicai alla perdita di beni immateriali: non volevo sapere più niente di niente e in effetti smisi di conoscere, studiare e apprendere qualsiasi genere di cosa. Non consumavo né possedevo alcunché. Funzionò. Ero una persona orribile e repellente per la maggior parte del genere umano. Nessuno volle chiavarmi nemmeno per scherzo. Va da sé che io non chiavai nessuno. Il mio non desiderare e non essere desiderabile era la nuova pornografia. Diventando brutto potei smettere di appassionarmi alla moda del tempo e in breve tutti si dimenticarono di me. La moda del tempo era quella di cui ho parlato prima: rendersi desiderabili e, aggiungo ora, piuttosto femminili (anche gli uomini) e apparentemente innocenti d’aspetto e d’intenti (anche i maggiorenni). All’epoca, del resto, l’immagine classica del desiderio appetibile era abbinata alla donna e alla fanciullezza, che pure da sempre rappresentano quanto di più eccitante gli uomini sappiano immaginare. (Certo, sto parlando proprio di donne e bambini) Così durante il nostro ’29 il mondo intero era pieno zeppo di piccole donne in miniatura sessualmente stimolanti; d’altro canto era pratica socialmente accettata che un uomo in là con gli anni, anche piuttosto rispettabile, trascorresse il proprio tempo libero con il figlio di un amico fino a desiderare di sedurlo e penetrarlo. Ecco, mi sono un po’ perso. Credo di aver pensato, allora, di non voler neppure avere figli, per evitare che qualche mio amico… Be’, di certo non avevo alcuna voglia di frequentare i figli dei miei amici.
Quanto alla donna che ebbe il fegato di innamorarsi di me: adesso non so dire bene chi dei due, ma a un certo punto, uno tra me e lei divenne di cristallo.
Fragilissimo.

C’è un’altra cosa che vorrei aggiungere prima di concludere. Assicuro che sarà insieme abbastanza esatta e impalpabile da rappresentare un’adeguata conclusione per questo pezzo. Insomma: all’epoca, durante quel nostro ’29, c’era pure chi pensava che sparire fosse il modo più appropriato e, come dire, anche più onesto, per affrontare quegli anni; be’, se qualcuno è sparito, in effetti, o meglio, ha deciso, semplicemente, di non apparire, ha di certo trovato una soluzione molto più incisiva di quella da me ricercata all’epoca con evidente tortuosità; tuttavia io non sono in grado di stabilire che fine abbia fatto e dunque non posso parlarne, non so bene che dire.