Cancellarsi
La prima volta svapori nel 2009. Estate 2009. La sensazione d’esser inseguita. Per una serie di fortuite circostanze hai aspettative altrui addosso e dicono no, non andare, resta qua, resta qua, proprio adesso che si parla di te, tu vai via, proprio adesso? Ma è questione privata e tu non molli. Hai ancora in spregio quel tuo corpo poco adatto alle ambizioni, una voce che non è ancora tua e così il tuo nome: quando lo ascolti detto da altri vuoi solo scomparire, è un tuono.
Tecnicamente ti sei disconnessa. Meglio, non te – il tuo account. Hai disconnesso il tuo account. Non è una novità, ci sei abituata, hai disconnesso, cancellato, sotterrato password di altri social e così chat e forum. Ma stavolta è altro. Un luogo fisico, questa è la sensazione: saluti, te ne vai, a qualcuno dici cercami di là. Resisterai un’estate. A settembre voglia – fame – di tornare, in un vecchio posto, cos’è cambiato, chi c’è ancora, a chi sei mancata? Le motivazioni le stesse: inseguire, essere inseguita, poi approvazione, bisogno, tempo, abitudine.
Assenza e attesa.
A dicembre 2011 un altro tentativo. Te ne vai. Chissà se durerà. Ancora una volta il bottone è una maniglia, apre una porta, esci da un luogo – mentale – ch’è diventato fisico. In fondo sei stata lì, a lungo, per via di tutti i luoghi fisici – e gli uomini, e le donne – in cui non sei stata, mai, per davvero.
Approvazione
Arrivi nell’autunno del 2008. Sono giorni in cui non si parla d’altro, è un’onda e ne sei travolta. Una volta iscritta, passa poco tempo prima che pensi: “Diamine, l’umanità sta migrando, stiamo traslocando qui, come specie intera; stiamo trasportando qui ogni cosa, miserie e virtù”. Ognuno ha il suo nome, quello vero, respingi due o tre tentazioni di pseudo-anonimato nello stile della vecchia Rete. Questa piccola nuova rete in espansione si basa al contrario su persone che potresti conoscere: persone che avresti voluto conoscere, da sempre. I nomi veri, i lavori veri, le amicizie vere, le miserie nere: e dal buco di culo di mondo che abiti – te stessa, la tua casa, la tua piccola città di provincia, la tua lingua incomprensibile – è una possibilità in più: l’unica.
Se qualcosa non accade qui, non accade per niente. Il qui è un luogo sempre più fisico, le persone con cui parli pure. Non puoi tirarti indietro, l’intelligenza e gli studi t’impongono di sperimentare, di essere all’altezza. Per essere all’altezza ci vuole un’immagine, e poi una storia credibile. Ma qui la storia è soprattutto cronaca, cronica, di se stessi, quotidiana, instancabile, a volte farneticante. Accadono vicende private nella vita offline – sempre più ellittica rispetto a quella del qui – per cui il tuo corpo passa di mano in mano, la tua voce pure, a poco a poco ti sopporti, sopporti il fardello fisico che ti hanno dato e che devi tenerti. Ti piaci. Come quel tasto che sa d’approvazione. Ma è un rimbalzare: tra approvazione del qui e approvazione offline. Le due cose si riversano l’una nell’altra e non sai se è possibile farle prescindere l’una dall’altra. Non sai se è per via dell’approvazione per una tua battuta nel qui che sei capace di sorridere fuori, spenta. Non sai se sei una, sola e indivisibile, o se siete in tre o quattro. Non sai quale, ma c’è almeno una di loro che ti piace, ti piace terribilmente e non ne farai a meno. Capita talvolta che il fuori dal qui, lo spento e il disconnesso, non corrisponda all’idea di quel che hai di te intorno; ma poco importa, è sufficiente connettersi perché tutto sia più piano e affrontabile. In pasto al mondo, a mezzo di una nuova grande Rete, ma al sicuro dal mondo.
Repliche
Accadi qui, dunque esisti. C’era la Rete di prima, adesso la Rete è soprattutto il qui. Sei in contatto con persone che non avresti mai potuto conoscere in altro modo, per fatti psicogeografici, lontananze di posti e d’intenti. In pasto dai loro una parte di te facilmente sacrificabile. Ironica, curiosa, attenta all’ascolto, ad accogliere, con cose molto importanti da scrivere prima ancora che da dire. Desiderabile e seduttrice, poco importa il tuo vero sesso: femmina, sei adesso la donna che non avresti potuto essere altrove, o che forse avresti voluto essere: ma solo altrove. I contatti offline esistono, tuttavia brevi, poi il rifugio, per confermare che la vita là fuori è poca e insicura. Un contatto prolungato espone a delusioni, tue o altrui. Il qui è il rifugio e se esci non ammetti né concedi repliche. Sei unica e speciale: proprio come tutti: repliche.
Gli altri
Lontani e vicini i tempi in cui gli esseri, umani, ti parevano formati da tre vettori: corpo, voce (interiore/esteriore), intenti. In ogni caso organismi complessi e non solo per un fatto biologico. Sullo schermo si sta in carne e pixel, senza pelle né ossa né odori. Appiattiti come in vetrina. La Rete ha adesso un unico grande canale, in onda mandiamo repliche di noi stessi. Repliche dell’idea che si vuol dare e di quella che si vuol avere degli altri. Gli altri: la lingua è l’equivoco che abitiamo e attraverso quella diciamo tutto di noi, mentendo. Dagli altri pigli quel che vuoi e lasci che prendano fraintendendo, purché sia approvazione. E chi non approva può star fuori. Fuori dalla cerchia, dalla tribù in cui c’è rispetto, timore, riverenza; l’affetto emerge come iceberg, costa ghiacciata e rara. All’interno di tribù gerarchie, e gerarchie tra tribù e tribù. Puoi scalare l’universo intero con un dito, ferma, immobile e in modo perpetuo.
Intere ore ad aspettare una reazione, fino a fissare il monitor e neppure il suo contenuto.
Gli altri ti osservano allo stesso modo; ti spiano; pur senza darti piacere di reazione, sanno bene o fraintendono: di te è tutto pubblico, in un certo modo: il privato è adesso davvero privato – privo – nel solco cioè di quel che non hai più.
Controllo/Concentrazione
Lo spazio sembra illimitato nel qui – e così pure il tempo, che appare come spazio dilatato all’infinito. E così dilania il finito: puoi non dormire e non mangiare; puoi smettere il lavoro o star qui al lavoro; e così gli amori immaginari verso altri immaginari; puoi anche morire offline restando qui.
E puoi smettere di scrivere – e in effetti ne scrivi ora in uno spigolo di lucidità in brandelli.
Così il tuo tempo è finito. Lo perdi tenendo a vista gli altri, moltitudine rumorosa e informe, inferma come te, brulicante nell’infinito; lo perdi nel seguirne i movimenti, tracciarne i profili, di profilo (il giudizio sarà sempre parziale, perché virtuale – una proiezione – è la prospettiva); lo perdi nel controllo ch’è illusione di possesso e che inizialmente era desiderio d’abbraccio che sapesse contenere l’infinito, una fame di vita in vita ch’è diventata simulazione di vita da smorto simulacro; e infine lo perdi, il tuo tempo, il tuo tempo prezioso ch’è l’unica cosa che hai, lo perdi: nel controllo e in questa smania assassina perdi il controllo che ha perso te. Il controllo che fa posseduto il possessore. Posseduto da tutti e da tutto, ma non da sé.
Ora la concentrazione non è più il tempo che sai dedicare a elevarti oltre le tue misure e miserie, il tempo che sai dedicare agli acciacchi e ai meriti, ad accettarli e a lavorarli da artigiana; la concentrazione è il potere che puoi stringere in una mano mentre nell’altra annodi i fili delle vite altrui; e altre mani stringono l’estremità del cappio legato attorno al tuo, di collo.
Baci virtuali
A una persona che hai lasciato indietro una volta hai detto: “Nell’assenza e nell’attesa si realizza la mia grandezza”. Non c’è più attesa né assenza, solo resa davanti alla grandezza, media, dei molti, una moltitudine ingrata e silenziosa che ciancia in continuazione di affari che ti suonano nelle orecchie come un sibilo bianco. Continuo. Non puoi, non riesci a pensare, anche immobile hai bisogno di guardare, la lingua immaginata delle foto, tu la decodifichi fino a farne scrittura, le biografie degli amici: è autonarrazione, non c’è romanzo o pellicola che tenga. Detesti chi ami e ami chi va detestato, perché intendi degli altri quel che basta a confermarne il giudizio virtuale. Lo stesso trattamento riservi a te, sempre presente, mai offline, impacchettata alla moda del qui. Non c’è assenza di te, non puoi mancare, non aspetti nessuno, non t’aspetti niente da te.
Il sibilo di sottofondo ti accompagna nei sogni. Degli altri sogni le reazioni nel qui, non quelle reali. Eppure ci sono stati baci, carezze, effusioni – una certa vicinanza. Che ne è ora di quella prossimità? Di quelle parole che ti avvicinavano a chilometri di distanza? Si può far polvere di pixel come di vecchi amori da balera? Si può?
Pendenze
Hai chiuso. Alle spalle è la porta. Rientrerai? Quanto durerà? Sarebbe da monitorare questo periodo di scimmia. Avrai la scimmia come in altri casi: e il tempo come lo butterai? Le dipendenze degli indipendenti – è così che ti sei dichiarata agli amici – sono soprattutto stracci bagnati sull’asciutto nulla. Ma hai chiuso e in piedi hai lasciato cose. T’accorgi che in questo è uguale il fuori, la vita spenta: discorsi appesi, virtù e miserie pendenti. Stalattiti, stalagmiti, così sono gli intenti. Proprio come fuori e poi dentro e poi fuori. Ti sei accorta che non volevi essere integra ma intera; che la moltitudine ha curato la solitudine; e niente ha curato te del tutto. Su cosa ti butterai adesso? Ti sei accorta che sei finita. Che non hai memoria – demandata al qui che tutto tiene scolpito in sé per sempre – ma solo nostalgia, nostalgia di persone che non hai conosciuto davvero: è nostalgia di vite potenziali, nostalgia della nostalgia e ci sei scivolata, tu ch’eri partita dalla pura forma che umilia la materia, Sehnsucht e saudade insieme. Tu ch’eri partita per l’infinito, ti sei accorta che sei finita: e in quella finitudine che addolora hai trovato il tuo umano; la cosa più dolce e angosciante che hai.
Sehnsucht
Un giorno farai un sogno senza mezzi di mezzo. Un sogno crudo. In questo sogno ci sarà un uomo, adulto, forse pronto alla vecchiaia. Ti leggerà le carte ma per raccontarti il passato, non il futuro. Lo farà come un gioco. A un certo punto dirà: “Ho aspettato d’invecchiare, ho aspettato questo momento a lungo. L’ho preparato, insomma, temendo in cuor mio solo una cosa: di morire facendo cose inutili, cose in cui non credevo. E adesso penso che sia brutto, che sia brutto averci questa carne marcia. Ma no, è un fatto di pelle, la carne, dentro: dentro rimani uguale. Ma per un galateo che mi sono dato allora, a vent’anni o poco più, adesso non posso incontrare che pelle, pelle uguale alla mia, pelle vecchia, e questo è brutto, triste, e onesto”.
[L’immagine all’inizio del pezzo rappresenta una delle ultime apparizioni su Facebook della mia parte femminile; l’elaborazione del codice dell’immagine è opera di Macilento.]
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