Analitico, l’esistenza di carta sembra farla a pezzi. Giorgio Fontana cerca purezza e spesso trova nient’altro che altri interrogativi. E ricomincia la corsa, un po’ folle, a volte fino a rincorrere se stesso. Che sia onesto non c’è dubbio. Che sia d’aiuto per molti, pure; e così potrebbe apparire addirittura stucchevole per altri. Ma quello che fa lo fa per intero e lascia che lo investa, per intero, fino a renderlo nudo, con le braccia alzate, di fronte a un mondo che è spesso solo un cono d’ombra – per lo più incomprensibile. C’è garbo, una sorta di galateo da autodidatta solitario, nello scrivere di Giorgio, che porta in qualche caso a provare invidia per lui, certo mai sudditanza: semmai stima, ammirazione. Se decidi di leggerlo – che è un po’ ascoltarlo – lo fai perché lo senti prossimo. Perché sai che merita la tua attenzione. Non gli chiederai nulla in cambio, perché nulla riceveresti. Questo lui lo mette in ogni pezzo e le conseguenze le vive da sé. Come dovrebbe essere.
Cosa rappresenta di te, la scrittura?
Mettiamola così: rappresenta il modo in cui affronto gran parte dell’esistenza. In termini narrativi, analitici, alfabetici, quel che vuoi. E definisce chiaramente anche tutto quello che non la riguarda, e che è altrettanto importante – il cono d’ombra dove le parole sono disarmate, inutili.
Quando hai iniziato a scrivere? Non intendo cose del tipo: «Sai, a otto anni ho scritto il primo tema e lo considero il mio primo romanzo…». Voglio dire: quand’è scattata quella cosa, quel meccanismo consapevole per cui adesso puoi dire, appunto, che la scrittura ti rappresenta come uomo?
Non so. Credo ci siano stati una serie di meccanismi inconsapevoli che poi hanno portato a una specie di ammissione – del tipo okay, io da questa cosa non posso liberarmi. E credo sia successo verso i vent’anni.
Che tipo di rapporto hai con la scrittura? Può essere in qualche modo legata a uno stato d’animo? Oppure è una cosa che sta lì e che puoi svolgere, allo stesso modo, in qualsiasi momento?
Dipende dalla scrittura. Io per lavoro scrivo, e semplicemente mi metto lì e faccio quel che devo fare. Per la narrativa è diverso, ovvio, ma non direi che è legata a un particolare stato d’animo. Diciamo che accade, e non ho mai capito bene che dinamiche ci siano dietro – e francamente nemmeno m’interessa.
Funziona così da sempre? Come l’hai addomesticata, la scrittura, come le hai preso le misure?
Sì, è stato così da sempre, e il rapporto è immutato (a parte alcune crisi). La cosa che è cambiata è il mio approccio: credo che ora sia più consapevole. Tieni conto che ho lavorato molto per arrivare a una forma di scrittura che considerassi decente. (In particolare è stato un incubo imparare a scrivere dei dialoghi sensati. Dio, quanto ho sudato su quei cazzo di dialoghi). Non ho mai pensato di poter dominare la lingua con facilità: anzi, tutto mi dimostrava il contrario. Quindi sì, prendere le misure di come si racconta una storia è stato un affare particolarmente complesso, e non è finito per niente. Non finisce mai.
Ti è mai capitato di sentirti limitato nella quotidianità delle cose per via dello scrivere? In altri termini, hai mai sentito una certa difformità tra qualcosa di anche molto banale che ti stava accadendo, e qualcosa che avresti potuto/voluto scrivere a riguardo?
Spesso. Fino a una certa età questa cosa mi spaventava, mi sembrava di stuprare continuamente l’esperienza, di sfruttarla e basta e perdermi il meglio come essere umano. Poi ho imparato a conviverci. E lo “scanner dello scrittore” non è sempre attivo. (Come ti dicevo, c’è un’ampia zona buia dove le parole non servono).
Qual è, oggi, lo spazio per la parte privata del tuo scrivere (non so, qualcosa tipo diario, o comunque cose che non leggerà mai nessuno) e quello riservato alla parte pubblica (anche solo tenere un blog)?
Quasi zero. Sul mio disco rigido ho un file di annotazioni che assomiglia un po’ a un diario, ma non ha nessuna utilità pratica e lo aggiorno anche una sola volta ogni sei mesi. Diciamo che tengo solo la cronologia di alcune cose importanti.
Sapresti descrivere la tua personalissima lingua, quella in cui hai scritto finora?
Penso sia cambiata abbastanza con il tempo. Diciamo che ho cercato il più possibile di affinarla e curarne gli aspetti anche più nascosti. Lavoro molto su due cose: la musica della frase e l’esattezza delle immagini. Uso molto i due punti in maniera eclettica, come congiunzione (invece del punto e virgola) – e il trattino. Appunto.
Quanto (e cosa) del tuo scrivere può appartenere agli altri?
Non so. Mi auguro almeno l’onestà. Su una cosa non transigo – prendere in giro il lettore.
Pensi mai di smettere? Intendo smettere e non pensarci più davvero, neppure una blanda tentazione – potrebbe essere tipo cambiare città, lavoro, abbigliamento, amicizie, tutto insieme, di colpo.
Ci ho pensato spesso. Ma alla fine la risposta è sempre stata: No. Perché non ci riesco. Scrivere per me è una condizione, non un’attività: definisce gran parte di ciò che sono e di come mi muovo su questo pianeta – nel bene e nel male.
Adesso scrivi tu una domanda per me.
Qual è lo scopo di queste domande?
Aiutarmi a capire e comporre dei piccoli ritratti di gente che scrive e che stimo. Un’indagine con un po’ di cuore, spero, e il cuore sta a voi che rispondete. Per cui grazie.
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