La riconosci sul finale. Stella cometa di ogni potere. Gradazione, particolarmente alcolica, di qualsiasi tipo di potere: allo stesso modo ha in sé i segni del proprio crollo. Mentre si incorona, da sé o con l’aiuto dei molti e dei muti, il dittatore è già condannato. La disfatta non dipende da agenti esterni, quasi mai, ma dal carattere stesso del capo, dalla sua capacità di farsi coriaceo padre della patria e resistere a mere questioni biologiche.
E quanto bisogno abbiamo, di quella resistenza.
Da lui riceviamo identità: se siamo con lui, la dittatura – diretta emanazione del capo, che si spande per le vie della città come musica lirica dai megafoni di certe città del sud – è ispirazione, aspirazione, per una volta peraltro legittima; cosa c’è di male a voler essere in un tempo e in un modo in cui si può essere in un solo modo (e in un solo tempo)? Se al contrario siamo contro di lui, abbiamo almeno un motivo per poter essere: senza di lui, semplicemente, non saremmo – né orecchie né bocca.
Così lui dà e toglie la vita, così la dittatura è uno stile, di vita, per i favorevoli e per i contrari, un racconto dunque credibile per almeno due schieramenti; in altri tempi si sarebbe detto: un collante sociale.

Per cui la riconosci sul finale, in quell’attimo che è già dopo.
Puoi chiamarla dittatura quando lascia detriti, rovine fumanti, personaggi da barzelletta erotica che sul transatlantico dell’apocalisse hanno solo voglia di ballare, in quel tipico momento in cui, dopo di lei, non è anomia ma cannibalismo: e ci si mangia l’un con l’altro mentre ci si penetra l’un con l’altro – ed è un penetrare che non presuppone alcun tipo di fecondazione, beninteso.
Puoi ben dire dittatura quando la sensazione è quella che siano state aperte le gabbie e tutti i polli, cui è stata staccata la testa, siano usciti a urlare cosa facevano (e non facevano) quando c’era lui; così non è propriamente un tutti contro tutti, ma un più onesto, per la verità, tutti contro il nessuno che è in ognuno di noi. E che aveva smesso di essere tale – dunque di non essere – proprio grazie al gran capo.
Per cui quando c’era lui, si stava meglio (la storia dei treni, e delle fogne, e degli immigrati); in sua assenza – e in attesa del prossimo – ci adoperiamo: e si fa come se ci fosse ancora, in fondo; ma visto che non c’è, allora, io posso esser lui – circostanza sempre preferibile al non essere – e si fa come faceva lui, allo stesso modo. Come in una sanguinaria guerra senza guerra, si colpisce per non esser colpiti; guerra incivile proprio perché civile, mossa in abiti borghesi ed accademici: sul pavimento, adesso non più sangue ma liquido seminale.