Di famiglia in famiglia s’avanza il mondo, e negli avanzi si fa e si disfa il resto, e del resto: a disfare una vita intera, ne basta mezza, anche meno. Per cui non sono un peccatore, non ne ho stile, classe, ci vuole una certa classe per peccare di un certo furore. E per cui la circostanza più semplice, resta, sempre: immischiarsi.
Reo non so essere, ma riconosco l’importanza della famiglia, le radici cristiane e le pallonate all’inguine, riconosco tutto quanto, io che non ho cerchi né gradi attorno né in petto (né re né padre né sottotenente d’alcun dado).
Ho stima di famiglie: tante ne ho conosciute, dalla mia persa nei mille rivoli delle divagazioni del seme, tutte colluse con la vita, così pronte e destinate a proseguire.
E quelle nate sui lavori, in ogni lavoro, famiglie allargate e protestanti, e poi quelle dei libri, siamo una famiglia, dicevano, così facciamo libri.
Così io starò muto.
Radici metto ovunque ma eccole tenui, deciso come sono al reciso, al refuso, continuo, del mio discorso biologico e impreciso, tutto votato ad appuntamenti mancati – per cui ho in spregio una sola cosa, lo spreco, il disperso, il mai più ritrovato, il succo perduto, il non succhiato a finire, a dovere, fino a dolere, a dolersi dell’indolenzimento della lenza spezzata (la mia schiena sul tuo corpo, io sterile: tu spenta).
Spento e seppellito dalla fallibilità della memoria altrui, coincido col mio doppio e mi raddoppio, non tradisco né mi traduco in altre lingue ma diserto, questo sì, e ubiquo – per una volta nel tempo, senza spazio – dico che no, preferirei di no, no grazie, siete gentili ma non siete miei simili se non per spirito di verosimiglianza e candore.