C’è sempre qualcosa di militante nella scrittura di Enrico Piscitelli. Per quanto limpida, trasparente, a volte minima o minimale (così dicono), ogni sua frase è il tentativo di costruire un mondo altro. Lo sforzo, titanico, che forse Enrico non ammetterà mai, è nel fare in modo che quel mondo risulti credibile – senza mettere terrore, per le conseguenze che implica, all’autore. Un autore inteso, molto banalmente, come semplice creatore di una scrittura che è già cosmogonia. Così ci siamo spesso interrogati, a volte accapigliati, con Enrico: sulle conseguenze di tutto questo nella vita privata di ognuno di noi. Abbiamo parlato di miseria, per dire, molto spesso chiudendoci un po’ in noi e sempre girando attorno alla storia delle conseguenze, della difficoltà di mettere in piedi qualcosa di onesto, credibile e, come dire, in un certo senso sostenibile per chi lo produce. Per cui ho sottoposto il Questionario a Enrico, anche a lui, che forse qui appare appunto minimale, però poi dice: “Ci manca l’invenzione, il disegnare mondi che non ci sono ancora, o non sono potuti esistere”. E poi mi pone (e si pone, vi assicuro) quella domanda finale.

Cosa rappresenta di te, la scrittura?
È come chiedere cosa rappresenta l’Amore. È un po’ troppo vaga, la domanda. Comunque, per me, la scrittura ha rappresentato momenti di felicità – nello scrivere, nel mettersi davanti alla pagina bianca di Writer e cominciare a raccontare qualcosa. Giorni, mesi di frenesia allegra. Allo stesso tempo, quando invece mi hanno chiesto di scrivere, quando non l’ho deciso io, è stata un’attività come un’altra. Come montare un mobile Ikea (se devi montarne uno, chiamami, ormai sono bravissimo).
Di me: forse, all’inizio, ero anche autobiografico. Poi, più che altro, c’ho messo quello che penso, nelle cose che ho scritto. Il mio punto di vista.

Quando hai iniziato a scrivere? Non intendo cose del tipo: «Sai, a otto anni ho scritto il primo tema e lo considero il mio primo romanzo…». Voglio dire: quand’è scattata quella cosa, quel meccanismo consapevole per cui adesso puoi dire, appunto, che la scrittura ti rappresenta come uomo?
Tardi. Mi pare un otto anni fa. A ventisette, ventotto anni. La prima cosa che ho scritto è stato l’ultimo racconto della Minima importanza. La storia di un suicida. Però, forse, in fondo, ho sempre sentito una propensione a. Niente di trascendentale, eh. Quando arrivai al ginnasio, la professoressa di Italiano ci fece fare un tema – eh eh – il primo giorno di scuola. Traccia libera. Poi, il giorno dopo, ci disse: “nessuno di voi sa scrivere. Ho messo tutti 4 e un sei meno meno”. Il sei meno meno era il mio. Mi avesse messo otto, forse avrei cominciato prima, a scrivere. Non saprei.

Che tipo di rapporto hai con la scrittura? Può essere in qualche modo legata a uno stato d’animo? Oppure è una cosa che sta lì e che puoi svolgere, allo stesso modo, in qualsiasi momento?
Be’, una volta impratichitoti, scrivere può tranquillamente essere un “lavoro”. Nel senso che ti metti lì e sviluppi un’idea. Ti scrive una mail qualcuno e ti dice: “mi fai un racconto per questa rivista, o per quest’altra cosa”. E tu glielo scrivi, ad hoc. Se poi intendiamo, per scrittura, rovesciare – e lì forse c’è la felicità, di cui sopra – quelle cose che stai maturando da mesi, allora no, è molto più complicato. Io sto raccogliendo appunti da un anno e mezzo. Forse anche da più tempo. C’è questa storia che vorrei raccontare, e ogni tanto, mentre faccio tutt’altro, mi viene in mente una connessione, un collegamento fra le varie vicende della storia. Non prendo neanche più appunti. Sta maturando, da sola. Ho intere scene in testa. È una cosa strana: affrontarla, per la prima volta, è complicato, hai paura che non ti venga, che poi muoia. So che adesso non è ancora arrivato il momento, ma so anche che sta per arrivare. In più so che non si tratta di una cosa breve, veloce, e che mi ci dovrei mettere per mesi.

Funziona così da sempre? Come l’hai addomesticata, la scrittura, come le hai preso le misure?
Pian piano. Ho cominciato mandando questi raccontini che scrivevo ad amici. Uno in particolare, grande lettore, mi ha aiutato molto, ammazzandomi di critiche. E io ho riscritto questi racconti tantissime volte. Alla fine penso di averli scritti bene. Adesso, se e quando scrivo, non devo più riscrivere così tante volte. Buona la prima, più o meno.
Tecnicamente, scrivere è come ogni altra attività umana. Assomiglia a cucinare, o al lavoro del falegname. Impari e poi sbagli sempre meno.

Ti è mai capitato di sentirti limitato nella quotidianità delle cose per via dello scrivere? In altri termini, hai mai sentito una certa difformità tra qualcosa di anche molto banale che ti stava accadendo, e qualcosa che avresti potuto/voluto scrivere a riguardo?
No. Forse all’inizio. Ora sento una forte attrazione per storie meno “quotidiane”. Mi sono reso conto, leggendo tanto – narrativa contemporanea italiana, riviste autoprodotte, fumetti “di realtà”, scritture in Rete – che in Italia c’è una deficit di immaginario. Spesso non riusciamo ad andare oltre un vago banale piangerci addosso. Credo sia questo che intendevano i Wu Ming, quando si sono inventati il Nie. Ci manca l’invenzione, il disegnare mondi che non ci sono ancora, o non sono potuti esistere.

Qual è, oggi, lo spazio per la parte privata del tuo scrivere (non so, qualcosa tipo diario, o comunque cose che non leggerà mai nessuno) e quello riservato alla parte pubblica (anche solo tenere un blog)?
Mai avuto un diario. Allo stesso tempo ho un enorme pudore, quindi le cose che scrivo non sono mai mie del tutto. Se c’è un’evoluzione della mia scrittura – o se ci sarà – è proprio verso la narrazione non intimistica.

Sapresti descrivere la tua personalissima lingua, quella in cui hai scritto finora?
Decisamente no. Su Pulp, mi pare, per un racconto, scrissero una cosa tipo “minimalismo sordo e cupo”. Un mio amico, in una recensione allo stesso libro, parlò di “minimalismo alcolico”. Il punto – per rispondere alla domanda – è che è tanto che non scrivo e che non so come scriverei ora. Se ti leggi quei racconti, i primi, credo che mi piacesse molto alternare periodi secchi a frasi prolisse. Sempre, o quasi sempre, in prima persona. La prossima cosa che scriverò – se la scriverò – sarà in terza. Con più attenzione alla narrazione che allo stile.

Quanto (e cosa) del tuo scrivere può appartenere agli altri?
Nel senso di chi mi ha ispirato? Difficile dirlo, davvero. Io credo che uno possa mettersi a tavolino e ricostruire esattamente lo stile di un altro autore. C’è questo ragazzo, che ha una attitudine innata per la scrittura, e mi mandava sempre quello che stava scrivendo. Io, ogni volta, gli dicevo: ma stai leggendo Tizio? Perché era evidentemente ispirato dalle cose che stava “affrontando”, via via. Era alla ricerca di un suo stile. Però, io, ora, credo che lo stile abbia un’importanza relativa. Gliene dài tanta, di importanza, quando comici a scrivere, e vuoi anche far vedere che ne sei capace, che hai una “bella penna”. In questo momento sono attratto dalle storie, dall’idea di costringere chi legge a stare appiccicato al tuo libro per tot ore. Poi: credo sia molto importante documentarsi. Quando ho scritto Nessun paradiso ho comprato un sacco di libri su Venezia, per esempio.

Pensi mai di smettere? Intendo smettere e non pensarci più davvero, neppure una blanda tentazione – potrebbe essere tipo cambiare città, lavoro, abbigliamento, amicizie, tutto insieme, di colpo.
Assolutamente sì. L’unica grande soddisfazione nello scrivere, finora, è stata: scrivere. Fabio Volo ti direbbe che è beccare un sacco di soldi, ma io non ho guadagnato una lira quindi non saprei. Al momento ti confesso che potrei scrivere questa storia che ho in mente e poi basta. Ci sono altre soddisfazioni, nella vita, e altri momenti molto piacevoli.

Adesso scrivi tu una domanda per me.
Caro Marco Montanaro, secondo me hai raggiunto la tua vetta artistica nella scrittura della vicenda elettorale di Francavilla Fontana (La passione). Sei riuscito a scrivere un libro corale, il racconto di una comunità. Come mai non hai insisto, in questo tipo di narrazione? È possibile che poi tu sia tornato a essere più “intimo”, meno “corale”, o è solo una mia impressione?
Caro Enrico Piscitelli, tu hai amato molto quel libro e io ti ringrazio, e del resto non è detto che io non torni a quel tipo di narrazione. Ma! Com’era quella storia di Paganini? A parte gli scherzi, ho poi fatto una cosa diversa, e spero di farne ancora. Mi diverte cambiare. Poi, come dici tu, non è detto che si debba scrivere per forza, ci sono altri momenti piacevoli, nella vita, e non ce l’ha certo ordinato il medico. Tra parentesi: mi hai frainteso in almeno due domande, e credo che il “ragazzo” che ti scriveva fossi io… Solo che tu mi dicevi “stai leggendo Tizio?”, e invece era puntualmente Caio. Dannato Piscitelli! Baci.

[Questionario #5: Matteo Scandolin] [Questionario #7: Federico Di Vita]