Si ha un bel dire del caso, di come stia sempre all’erta dietro al sipario di ogni addio. E si ha un bel dire dell’addio come di una speciale forma d’arte che sempre si dovrebbe saper perfezionare. Ma molto del sangue di un addio ha a che fare col naso, col fiuto che uno ha o non ha per l’abbandono più o meno volontario di persone e situazioni e momenti, soprattutto momenti. Anche di questo si parla ne Gli addii di Juan Carlos Onetti (Sur Edizioni). Ad ogni buon conto penso che un libro si presenti bene col suo incipit, che a volte illumina o fulmina mentre già ti fa accomodare accanto e sulle ginocchia dei personaggi che lo animano; e dunque prima di procedere con l’incipit di questo romanzo, aggiungo solo che nella vita di ognuno ci sono libri che vengono a cercarti (e ti trovano, per fiuto o per caso) e persone che cambiano le carte in tavola, che potrebbero passare come altre e invece stanno lì come «una profanazione, un’offesa, un controsenso» e hanno un campo magnetico attorno che ti obbliga ad indagarle, a fare supposizioni circa la loro destinazione e, soprattutto, la loro provenienza. Persone che ti obbligano a guardare da vicino e a quel punto il problema non è più l’abisso, ma lo specchio, d’acqua, che queste persone rappresentano e per cui in fondo ti hanno incuriosito.
Avrei voluto non avere visto dell’uomo, la prima volta che entrò nel negozio, nient’altro che le mani; lente, intimidite e goffe, con movimenti senza fiducia, affilate e ancora non scurite dal sole, quasi a voler chiedere scusa per il loro gestire disinteressato. Mi fece alcune domande e prese una bottiglia di birra, in piedi all’estremità più in ombra del bancone, con il viso – sullo sfondo del calendario, dei sandali e dei salami imbiancati dagli anni – rivolto verso l’esterno, verso il sole dell’imbrunire e il viola sfumato delle montagne, mentre aspettava l’autobus che lo avrebbe lasciato davanti ai cancelli dell’albergo vecchio.
Avrei voluto non avergli visto altro che le mani, mi sarebbe bastato vederle quando gli diedi il resto dei cento pesos e le sue dita strinsero i biglietti, cercarono di ordinarli e, subito, per improvvisa decisione, li appallottolarono e li nascosero con pudore in una tasca della giacca, mi sarebbero bastati quei movimenti sopra il legno pieno di fessure riempite di unto e di sudiciume per capire che non si sarebbe curato, che non aveva nessuna idea da cui trarre volontà di curarsi.
In genere mi basta vederli, e non ricordo di essermi mai sbagliato; ho sempre formulato i miei pronostici prima di sapere l’opinione di Castro o di Gunz, i medici che abitano in paese, senza altri dati, senza avere bisogno di altro che di vederli arrivare al negozio con le loro valigie e le loro quote diverse di vergogna e di speranza, d’ipocrisia e di sfida.
L’infermiera sa che non mi sbaglio; quando viene a mangiare o a giocare a carte mi fa sempre domande sui visi nuovi, si burla con me di Castro e Gunz. Può darsi che voglia solo adularmi, può darsi anche che mi rispetti perché da quindici anni vivo qui e da dodici mi arrangio con tre quarti di polmone; non saprei dire perché c’indovino, ma so che non è per questo. Li guardo, nient’altro, a volte li ascolto; l’infermiera non lo capirebbe, e forse neppure io lo capisco del tutto; intuisco l’importanza che ha per loro quello che hanno lasciato, l’importanza che ha quello che sono venuti a cercare, e confronto una cosa con l’altra.
Nel suo principiare, Gli addii contiene già numerosi indizi circa la sua destinazione. Un romanzo breve che attacca con passo da racconto orale, non tanto per la prosa, che scopriremo presto molto letteraria, densa a volte e incallita altre, quanto per il coro di supposizioni e sensazioni da “mi hanno detto che…” che mette subito in campo. Mentre nel frattempo si nutre di uno stile indagatore che accompagna ogni azione col vaticinio dello stato d’animo sotteso in essa, che a sua volta è portatore di un frammento del passato di chi compie quell’azione; così la prosa esaspera il realismo creando un sottile strato d’immaginazione, al cui velo e al cui volo è legato il piacere della lettura del romanzo di Onetti. Ma soprattutto, nell’incipit de Gli addii viene detta una cosa alquanto singolare, e cioè il non voler vedere nient’altro che il gestire disinteressato delle mani del «tipo»; ovvero il contrario di quel che poi sarà, col narratore (parziale) dei fatti che subirà un’irresistibile attrazione per ogni angolo della vicenda esposta nel romanzo.
Allo stesso modo, comunque, può rapire la prima inquadratura di un film. La macchina da presa, in questo caso, entra nel negozio gestito dal narratore parziale dei fatti. Si posa accanto a lui, o fra i tavoli, in ogni caso ad altezza uomo (altezza-personaggio, potremmo dire). Siamo tra loro, in questa cittadina piccola e comune – fuori dal tempo, diremmo, ma subito dentro a un coro – che accoglie tubercolotici per vederli andare a morire o guarire in sanatorio (si sa come funziona, solo in ospedale si palesa l’acciacco, la malattia). Lì, nel negozio, è appena entrato «il tipo» altissimo, sulla quarantina, che si scoprirà esser stato un campione di basket, su cui subito si concentra l’attenzione del narratore. Di questa montagna dinoccolata e sinistramente carismatica non conosceremo mai il nome, ma indagheremo, per approssimazione, gli intenti. Non è uno dei tanti e il gestore-narratore del negozio capisce subito che non vuol curarsi. Soprattutto, egli comprende che «il tipo» rigetta l’idea stessa della malattia e farà di tutto per distinguersi «dagli altri», gli abitanti del posto e i malati. Lui non è come «gli altri», e non solo perché si tratta di un ex campione sportivo. Forse non sapremo mai il motivo del suo percepirsi diverso. Ma lui segnerà con ogni mezzo il suo sentirsi al di sopra dei fatti biologici e medici, il suo piegare la realtà a una selva di abitudini che lo terranno lontano dalla miseria della malattia: dapprima alloggerà in albergo, poi in una villetta affittata per starci di pomeriggio prima con una donna sua coetanea e poi con una ragazzina. Dapprima non scambierà parola con nessuno – non è mica lì per curarsi – poi al contrario si dimostrerà inaspettatamente socievole, empatico, capace di raccontarsi, quando la compagnia delle due donne (prima una, poi l’altra, poi entrambe, insieme, a spartire il suo cadavere o la possibilità di accompagnarlo a morire) lo alleggerirà dal peso d’esser fatto di carne.
Al tempo stesso «il tipo» è un uomo disperato, solo, stanco, con gli occhi da pesce addormentato.
Perché il narratore-negoziante si appassiona così tanto a lui? Una supposizione a posteriori, da lettore, posso farla adesso io: il narratore vive in quella cittadina da quindici anni, da dodici vive «con tre quarti di polmone», e queste sono le uniche cose che sappiamo di lui; probabile che nel «tipo» e nelle sue nuove e finte abitudini lui riconosca il contrario di sé, di quel sé che è ficcato in un negozio da tempo e che non sa più uscire, le cui abitudini – vecchie e reali, sintomo di una vita che è solo quella e non un’altra – lo inchiodano in un posto e in uno stato d’animo. «Il tipo» usa al contrario l’abitudine, in un contesto che non è il suo, per rimarcare e definire continuamente la sua diversità, il suo non esser morto – in senso metaforico, stavolta – mentre sta andando a morire.
E allora Onetti, attraverso lo sguardo del narratore del negozio, carica e scarica addosso al «tipo» la fatalità che, a quanto pare, lega molti dei suoi personaggi. Carica di supposizioni ogni descrizione, la prosa si fa densa e rarefatta insieme, e i personaggi – ovviamente l’ex cestista su tutti – cascano sotto il peso delle deduzioni in forma d’aggettivi e subordinate del narratore parziale – parziale appunto perché deve indagare, raccogliere informazioni e dedurre da quel poco che vede, di cui pure ha fame, perché quell’uomo altissimo e disperato ha qualcosa che funziona come una calamita. Ma a noi lettori, in fondo, è dato sapere ancora meno rispetto a quel che la nostra guida sa.
Pare che Juan Carlos Onetti sia maestro in un certo realismo onirico, quasi insonne (a ma pare una narrativa notturna, o che comunque punta allo stordimento tipico dell’alba dopo una notte insonne). E in effetti, mentre si gonfiano descrizioni e supposizioni sul passato e il presente del «tipo», lo sguardo del nostro narratore, sempre più coinvolto – pur rimanendo fisicamente estraneo alla vicenda, passivo nelle azioni e attivo solo nelle approssimazioni – diviene sempre più appannato, come passo sghembo da brillo che passeggia di alba in alba; e vengono meno gli indizi che aiutano a ricostruire i fatti. Il simbolo della sottrazione degli indizi, operata da Onetti a danno del narratore e da quest’ultimo a danno nostro, è la busta. La busta che contiene le lettere (d’amore? rivalsa? odio? capriccio?) che «il tipo» riceve dalle due donne citate in precedenza. Non sapremo mai o quasi cosa c’è scritto in quelle lettere. Il narratore parziale lo sa, perché arrivano al suo negozio, e lui le apre (forse), lo sa ma non dice nulla, preferisce ingannare la macchina da presa (cioè noi) al suo fianco, divertendosi nel finale con duplice colpo di scena (ma non è detto che lo sia, duplice) a leggere qualche frase dall’ultima lettera inviata dalla donna coetanea del «tipo». Uno stralcio che cambia le carte in tavola (forse), e allo stesso tempo non cambia l’insensatezza della vicenda, del caso racchiuso in essa.
A questo punto, però, bisogna presentare i due personaggi femminili. La coetanea del «tipo», forse sua moglie o comunque compagna, appare per prima. Arriva in città e passa qualche giorno in albergo in compagnia dell’ex campione di basket. Lui ne è rallegrato, la visita lo solleva e allo stesso tempo lo fa sentire ancora più estraneo alla malattia. Ma la donna, in questa prima apparizione, non viene descritta se non per differenza: il narratore parziale, dopo averla introdotta, riprende con le sue supposizioni sul passato da sportivo del «tipo» (e il rapporto fra sogno e passato qual è? Per Onetti: «Il passato non vale più di un sogno altrui»). La donna esiste solo, ai nostri occhi sempre più insonni, per definire lo scarto tra l’ora e l’allora dell’uomo con gli occhi da pesce addormentato. Almeno fin qui. Perché poi entra in scena la ragazza, che sarà lo stesso narratore parziale a portare dal «tipo», e che «il tipo» terrà con sé nel villino per una settimana, anche in questo caso mostrandosi poi sollevato e reso più umano dalla compagnia femminile. Una ragazza che il narratore parziale vede sicura e smarrita insieme, pronta comunque alla disperazione altrui, ad accettare la disgrazia «che segna le date» come capita a certi adolescenti che del mondo adulto solo intuiscono il cinismo, e pronta al rapporto con un uomo che è tutti gli uomini e le loro avventure; una ragazza per cui gli uomini «sono simboli, sono quello che rappresentano», pronta a metabolizzare ogni esperienza, immediatamente, in ricordo. E queste sono ancora le impressioni del nostro amico-narratore parziale.
Tornerà poi la donna, questa volta con un bambino al seguito; e solo allora cadrà anche lei sotto il peso della descrizione del narratore parziale, solo quando sarà lì caratterizzata dalla compresenza del pargolo biondino, lì con tutto il suo peso di donna, sui quaranta anche lei, a tentare di riprendersi il suo (?) uomo in fin di vita; e lì tornerà anche la ragazza, e accadrà una cosa rara, preziosa e penosa insieme: le due donne siederanno allo stesso tavolo col «tipo», e lì stringeranno un patto. Non posso dire altro per non rovinare la sorpresa; ma qui verrà fuori e si scioglierà, forse, il nodo contenuto ne Gli addii e in ogni addio. Qui il patto avrà a che fare con l’animale che muore, per cui chi deve andare o restare si pone una domanda in più, sulla propria inadeguatezza, e più che mai altruismo e amore egoistico si mischieranno; ma la questione di ogni addio è nella miscela tendenzialmente mortifera di vita e morte che esso contiene. Nell’addio, che nella nostra lingua sa d’affidamento al Signore, al caso o chi per loro, chi riceve il commiato sente la morte per sé e immagina la vita di chi e per chi si allontana; oppure, al contrario, non sa immaginare la vita per sé e conosce invece, attraverso l’altrui assenza, la morte simbolica dell’altro. In questi frangenti la vita appare faticosa, ottusa, insopportabile nel suo lavorio continuo e obbligato; e la morte invece è apparizione fugace, dolorosa eppure auspicabile nel momento in cui più morde il saluto, il ricordo dell’ultimo contatto che richiama l’addio; la vita ci appare allora come la formica, la morte come la cicala. Nell’addio rinegoziamo il ruolo dell’una e dell’altra e spesso desideriamo la cicala, la sua azione sporadica, effimera e nichilista. Nell’addio all’animale-compagno che muore, triplichiamo il peso del nostro rinegoziare e rinegoziarci, in fondo desiderando che almeno un risarcimento – la morte fisica dell’animale – giunga per la nostra rinuncia, un risarcimento che dia un tocco di giustizia alla nostra scelta; e allo stesso tempo, se l’animale poi non muore davvero come aveva promesso, proviamo, nel saperlo ancora vivo e non solo vegeto, quel sottile e perverso piacere tipico di certi periodi della nostra vita passati a umiliarci e degradarci, un piacere che è più un sollievo simile a quello che si prova quando passa il dolore per un pugno preso dritto sul naso.
A quel punto non siamo più solo narratori parziali di una storia, la nostra o quella altrui, ma anche partigiani, perché scegliamo una parte, giusta o sbagliata, e soffriamo e ci esaltiamo per la fedeltà giurata ad essa; e così pure il narratore parziale de Gli addii si fa narratore partigiano, arrivando a tifare per una delle due donne, soppesando le testimonianze altrui nel corso della vicenda e finendo per delegittimarle delegittimando gli stessi testimoni quando questi saranno in disaccordo con lui e con la sua visione dell’avventura umana del «tipo».
Non dirò altro della scelta, del patto delle due donne, dei colpi di scena; e non dirò neppure del caso che mi ha portato questo libro, delle sue intenzioni folli e delle sue conclusioni forti; non dirò cosa ci ho visto dentro e chi, e in questo mi faccio a mia volta narratore parziale. Aggiungo solo, per concludere, che è molto bello che questo libro sia dedicato a una donna, una donna che si chiamava Idea, Idea Vilariño, e che era una poetessa.