Sei entrato nel giardino, è accaduto tempo fa. A viso aperto: forse non interessava a nessuno ma tu, tu ci sei entrato sul serio. Giardiniere, però: ti ci sei improvvisato. Così hai trovato quella pianta. Adesso non ricordi se hai dovuto cercare a lungo o se è stato facile, di quella facilità o disinvoltura che induce al sospetto – di quei sospetti che inducono, sulle prime, all’abbandono. Ma niente, non l’hai abbandonata. Adesso non ha importanza di che pianta si trattasse, anche se lo sai bene e puoi comunque far finta di nulla. L’hai tirata su, curata, rimessa in sesto, non fa differenza: puoi dirlo come preferisci. Hai imparato, e mentre imparavi di lei e della sua specie, insegnavi a te stesso, al riparo dal sole di mezzogiorno e dal vento di taglio che affligge le tempie.
Poi è arrivato il giardiniere, quello vero, il professionista (definizione che hai dato tu, forse per togliere qualcosa a te, per delegittimarti, ma non avresti dovuto). L’hai riconosciuto come si riconosce un avversario già affrontato in un’altra vita (che tuttavia in sé racchiude tutti gli avversari di questa vita), forse dal portamento, un ricordo, un richiamo comunque vecchio di mille secoli e mille acciacchi. Giardiniere, lui lo era davvero, lo era anche lui (davvero, è fuor di dubbio che qualcosina sulla materia l’avessi imparata pure tu nel frattempo). Così lui si è messo al lavoro. Su quella pianta. La tua pianta. Che ha riconosciuto te in lui, e lui in te, scambiando persone ma fedele al ruolo, suo e di chi maneggia cesoie e annaffiatoi. E mentre ancora ti chiedi perché non hai protestato – neppure mezza smorfia, goffa, neppure una delle tue – stai lì a contemplare il tuo bel campo di grano raso al suolo.