Questa storia mi è stata raccontata dal mio doppio nella stanza d’albergo che ci ha fatti compagni e nascosti al mondo intero per qualche tempo; mi è stata raccontata in uno di quei particolari stati di eccedenza emotiva da cui il mio doppio viene colto di tanto in tanto; in quei momenti è capace di riferire con foga e noncuranza di eventi e persone che in forma del tutto astratta e pura, a distanza di millenni, sono ancora in grado di procurargli al tempo stesso godimento e dolore.
Va anche detto che questa, raccontata in un albergo, è a sua volta una storia di alberghi, il nome di uno dei quali comincia per H (il mio doppio non lo ricorda o finge di non ricordarlo per intero); allo stesso modo va precisato che per il mio doppio i sentimenti sono come il denaro, l’oro, il petrolio e qualsiasi altra risorsa destinata a terminare su questa terra. Per cui anche la hýbris che lo porta a raccontare, anche l’antica tracotanza sentimentale dei greci, diviene, per il mio doppio, il semplice aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità emotive.

Riferisce il mio doppio d’aver incontrato la sua prima donna in una città del nord, nella stanza di un albergo di lusso. Fu lei stessa a pagare l’alloggio, con estrema cortesia, dato che il mio doppio veniva da un lungo viaggio. La donna aveva solo due o tre anni in più di lui, ma in sé aveva il modo di pensarsi delle donne fatte e compiute, quel modo che si scorge quando le femmine agiscono il proprio corpo in solitudine, convinte di non esser guardate, nei gesti più semplici e concreti, come ravviare i lunghi capelli o sistemare una maglietta attorno al seno. Al contrario, all’epoca il mio doppio non era che un bambino, e la sua esistenza si spiegava e si concludeva nel pensare che un solo gesto di rabbia momentanea avrebbe sempre potuto risolvere le cose.
Per prima cosa lei andò a prenderlo alla stazione e l’accompagnò in albergo. Era una bionda tinta e, nel riferire questo particolare, il mio doppio precisa che la donna era d’origine meridionale e che in certe regioni del sud l’aggettivo tinta non ha nulla a che vedere col colore dei capelli; mentre dice molto di un particolare modo di essere dell’animo umano.
Nella stanza la donna mostrò le gambe velate di calze al mio doppio e lo baciò a lungo. Disse che sarebbe tornata nel pomeriggio, dopo un pranzo di lavoro già fissato da tempo.
Nel pomeriggio i fatti si svolsero con la semplicità tipica di ogni prima volta che si ripete all’infinito. Lei tornò e fu accolta con un bacio. Parlarono del paesaggio che si vedeva dalla finestra della stanza (erano soprattutto colline, cui il mio doppio non era abituato) e abbassarono la tapparella. In breve furono sotto le lenzuola, lei si fece piccola come il mio doppio, fingendo, da adolescente provvisoria, di voler solo dormire; altrettanto rapidamente furono baci, carezze e mani reciproche che rendevano reciproco il sesso dei due. La donna agì sul corpo del mio doppio nel modo in cui interi corpi agiscono nei lunghi pomeriggi d’amore. Fino a quel punto, nella penombra della stanza, il mio doppio molto aveva goduto e poco aveva visto: fino a quel punto fu soprattutto questione d’olfatto.
Più tardi il mio doppio si vestì e scese a prendere da bere. Quando tornò di sopra, bussò e attese. Lei aprì, nuda, fingendo vergogna per l’ipotesi che qualcuno nel corridoio la notasse in quello stato. La luce nella stanza adesso era accesa: il mio doppio poté così vedere per intero la sua compagna. Era una donna magnifica. La baciò ancora e comprese delle cose, che sarebbero tornate di tanto in tanto nella sua vita, sulla felicità degli uomini, sul possesso, sull’attesa, sulla condivisione. Gli parve di aver delimitato i confini di qualcosa che non esisteva fino al giorno prima.
Lei tornò a letto mentre lui sistemava le bevande sulla scrivania. Nello specchio lui la vide a quattro zampe sulle lenzuola, ancora più nuda, che lo guardava. Quel giorno conteneva molte più cose di quante ne possa contenere una vita intera, questo pensò il mio doppio, fin quando non si voltò e le guardò l’ano e il sesso e fu lei a chiedere: Vuoi prendermi da dietro? Il mio doppio sorrise, si spogliò e fu di nuovo con lei. Più volte nel corso della giornata lei lo sfidò dicendo che non era possibile che lui ne avesse ancora per lei e poi fu ancora lei a dominare la vista del corpo di lui, da sopra, con lo sguardo che sognava e la bocca che rideva, ma coi bordi delle labbra all’ingiù, come capita alle donne quando finiscono la loro indefinita corsa verso il piacere.
La donna decise che non avrebbe rivelato, al mio doppio, alcune pratiche piuttosto slegate dall’unione di due corpi e che solo in seguito lui avrebbe scoperto da altre donne. La donna, quella donna, andò via per sempre il giorno dopo e s’innamorò di un altro straniero, che lasciò dopo qualche mese, prima di tornare all’uomo che l’avrebbe resa moglie e madre e che l’attendeva da sempre.
Non fu, com’è facile pensare, quello che il mio doppio aveva lasciato nella stanza d’albergo, a spezzarlo, quanto quello che vi aveva trovato: fu questo a farlo entrare in quello che lui chiama, non senza una leggera dose d’autoironia, il “clan del destino”, che tuttora lo nasconde al mondo per lunghi periodi e poi lo getta, ancora, da sopravvissuto, sulla spiaggia degli umani accadimenti. Ad esempio la verginità, dice sempre il mio doppio, anche una volta perduta torna ancora nella vita in forme strane, ad esempio in forma di sguardo o di tatto; non torna invece l’abitudine al ritorno a sé nella solitudine del ragazzino, e soprattutto in quello lui fu fatto uomo dalla donna in quella stanza d’albergo. Un tipo di ritorno che presuppone la capacità di sopportare l’abbandono, un tipo di abitudine al ritorno che le donne conoscono anche da adulte, e che invece gli uomini, una volta divenuti tali, perdono per sempre.

Ma non soffre di nostalgia il mio doppio, se il presente scolora lui non ha un altrove di passato cui far ritorno, non ha nulla di già accaduto presso cui trovare ristoro per cui questi fatti, quando raccontati, lo turbano solo fino a un certo punto; è l’astrazione che da essi scaturisce che lo getta in quello stato di eccedenza sentimentale o emotiva di cui ho detto. Ed è all’astrazione di essi, non al loro corrispettivo concreto, che il mio doppio fa ritorno (in lui, come detto, è Saudade, Sehnsucht, Toska, mai nostalgia). Per cui la questione è forse proprio quella del rifugio: quella donna e quella stanza, saldate insieme, furono rifugio eterno e temporaneo insieme per il mio doppio. Da allora è quel tipo di riparo l’unico che cerca. Fu soprattutto la forma astratta delle cose che avvennero e che vide in quella stanza ad avvicinarlo all’irreversibile: un certo modo di sorridere alzando gli zigomi; il seno che teneva il ritmo di lei con la schiena eretta su di lui; il petto fiero e pieno dopo gli amplessi condivisi; l’arrossarsi dei talloni in determinati punti della concitazione amorosa; le piccole labbra, osservate mentre lei era in piedi sul pavimento della stanza, che si aprivano e cascavano spaccate e mai molli come in certe giovani donne che hanno già accolto molti membri senza che tuttavia la loro carne più intima abbia perso alcuna grazia; e in generale tutto ciò che c’è di tipico e contraddistingue la forma di una donna e che gli uomini desiderano segretamente involgarire, tutto questo divenne astrazione nella mente del mio doppio e ancora atto pratico, sostanza concreta, nelle donne che lui cercò in seguito, e di cui fece, a suo modo, ancora stanze di compagnia provvisoria ed eterna insieme.