Ossa non ne ho. Perciò m’infilo, m’assottiglio; cerco il pertugio. Dal secolo scorso ho ereditato questa brutta tosse, una elettrica Eko copia Stratocaster e una discreta propensione all’acciacco. Niente acciaio, solo storie. Più simile al ratto che all’asino, ho detto: m’assottiglio, m’infilo, mi appiattisco – non sul colore, non quello altrui. Faccio spallucce se tentano il morso, il colpo di scopa; mangio solo se prima non vengo mangiato. In assenza di ossa – questo credevo – si hanno più strade, posso inseguire, setacciare, rivolgermi all’elenco, alla lista della spesa. Occhi rossi non ho, di notte non guardo ma certo rimango sveglio. In assenza di struttura – un vecchio contadino con esoscheletro d’ulivo mi propose una di quelle tute d’argento, pareva un’armatura: dissi no, non la merito, non ancora, e poi niente, è passato il tempo, uno sbuffo – mi illudo di essere un rametto, uno di quegli insetti stecchi; mi trovo lento, alle volte, così lento da trovarmi per poco in anticipo: almeno su chi insegue.

L’endoscheletro me lo prestò invece un inventore; un genio, si sarebbe detto. Ma c’è differenza. Il genio si ostina, nell’ostinazione perde gli arti, trova l’arte, poi esala l’ultima invenzione (quasi una scorreggia); l’inventore invece si agita, prende tempo, trova gente, un artigiano elegante, insomma, mette giù un’idea che viene – al solito – completata da un aiutante; l’inventore ha l’aiutante, senza bisogno d’aiuto, è solo fascino da ereditiera zoppa. Ma dicevo. L’endoscheletro d’amianto mi fu prestato per un anno, un anno e mezzo; non meritavo neppure quello, pena esasperata, me ne servii in due o tre occasioni (sparigliare scommettitori in ansia per la mia terra; separare due donne in lotta in equilibrio su un parafango – ma la macchina non era la mia). Lo restituii che dentro sanguinavo. In poche parole – o molte, fin troppe – mi trovai a dover rispondere di reati non commessi senz’animo compatto. Un ratto, mi dicevo, un ratto, così tu devi andare.