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Germania, subito dopo la guerra. Fred e Käte sono sposati, hanno tre bambini, vivono in un alloggio con altre famiglie. In un modo o nell’altro – forse per la guerra, forse per l’alcol – Fred è andato via da casa. È successo che un giorno ha alzato le mani ai bambini, non si è riconosciuto in quel tipo d’uomo ed è tornato alla sua vita di poco lavoro, mania per i flipper, giri per i cimiteri. Di tanto in tanto Fred e Käte si incontrano per fare l’amore in alberghi di quint’ordine o tra i muri di case distrutte dalle bombe. Fred comprende che è la miseria che l’ha ammalato, Käte potrebbe essere nuovamente incinta e si sente una prostituta.
E non disse nemmeno una parola (Heinrich Böll, 1953) è la storia dell’ultimo – probabile – incontro tra Fred e Käte, in cui i due rievocano un amore che conserva angoli di splendida purezza pur nella miseria postbellica. Nel pezzo che segue, è la donna a parlare.

Nella stanza accanto è cessato quel gemere orrendo, quel grugnire e rantolare spaventoso con cui i vicini accompagnano i loro amplessi. Ora dormono, prima di andare al cinema. Comincio a rendermi conto che dovremo comprare una radio per coprire quei gemiti, perché i discorsi a voce volutamente alta che comincio a fare non appena avviene quella cosa tremenda, che m’ispira non disprezzo ma solo paura, quei discorsi s’interrompono troppo presto e io mi chiedo se i bambini non comincino a capire. Ad ogni modo lo sentono, e l’espressione dei loro volti sembra quella di animali tremanti che fiutino la morte. Quando è possibile cerco di mandarli in strada, ma queste prime ore del pomeriggio della domenica sono piene di una squallida tristezza che spaventa anche i bambini. Divento tutta rossa appena nella stanza accanto si fa quello strano silenzio che mi paralizza, e cerco di mettermi a cantare quando i primi rumori annunciano che la lotta è cominciata: il cupo, irregolare traballar del letto e quelle voci che paiono quelle che gli acrobati si lanciano l’un l’altro quando si librano in cima al tendone del circo e cambiano al volo i trapezi.
Ma la mia voce si spezza, incerta, e io cerco invano le melodie che ho nell’orecchio ma che non riesco a formulare. Sono minuti, interminabili minuti nella mortale tristezza della domenica pomeriggio. Sento i loro sospiri esausti, sento che si accendono la sigaretta, e il silenzio che segue è saturo d’odio. Schiocco la pasta sul tavolo, la voltolo di qua e di là con quanto più rumore possibile, la schiaffeggio un’altra volta e penso ai milioni di generazioni di poveri che sono vissute senza avere lo spazio per fare l’amore, e distendo la pasta, ne rialzo l’orlo tutt’intorno e infarcisco la torta di frutta.