Una volta, di sera e di maggio, rese omaggio a una cosa del passato. Si disse, pensieroso, «come posso tornare indietro, come posso, io crocifero, mi faccio adesso tarantino?». Così passeggiò sulla piastrella del suo bagno, in verticale, consumandola di passo e di compasso. Poi decise.

In verità ne scrisse. Ne scrisse prima, durante (soprattutto) e dopo l’omaggio. Un esercizio d’esorcismo, mettersi in cassaforte prima del mare. A che serve celebrare il passato? Serve forse un po’ al presente, per destabilizzarlo, forse un po’ al futuro, per deresponsabilizzarlo. Certo non serve al passato, tutt’ora un passaggio, per stare al circense, rimanere all’equestre.

Di corsa dovrebbe andare il passato: di chilometri ne macina, eccome. Per venirti a trovare, per venirti a stanare: tenero e minaccioso, un pirata di mari già bevuti, in tempesta ieri, in quietante bonaccia oggi, evaporati domani. Ma è in quella tenerezza che s’infila l’omaggio: lui passato che ha fatto tanta strada, non vuoi tu ospitarlo, almeno per una sera, seppure per un’ora? La compagnia è buona – non foss’altro che è già nota, una vecchia zia – da bere ci sarà qualcosa – sempre così, al passaggio – da dimenticare pure – siamo qui per questo.

Così fu che ruotò gli occhi mezza volta e fece una piroetta per dare il benvenuto alla cosa dal passato. Così fu che gli si strinse il cuore: era proprio lui morto capovolto e risolto in quel frammento che era stato; così fu che esangue si osservò al passaggio di quell’epoca salmastra che si faceva già passata, succo di pomodoro: piuttosto che sangue.