All’epoca accoglievo molto.
Molti erano da me; così ascoltavo.
Per ogni matrimonio, un funerale.
Giusto a qualche chilometro dalla città che abitavamo, si combatteva una guerra.
Quando il vento soffiava da oriente, potevamo ascoltare il clangore degli strumenti che in quella guerra venivano adoperati per distruggere e giustiziare.
Non c’è bisogno che dica che aspettavamo.
Aspettavamo che quella guerra, come una malattia sopravvissuta alla chimica della storia o alla biologia della memoria, si avvicinasse alle porte della città.
Aspettavamo, consapevoli che sarebbe toccata anche a noi e che le mura del posto che abitavamo erano state costruite per venire giù in un giorno di particolare violenza.

Un giorno scoprimmo che il nome della città era una menzogna.
Il suo vero nome aveva a che fare coi Tartari e veniva da nord-ovest.
Come in quel racconto surreale, comprendemmo che la nostra vera natura, e la nostra storia, avevano a che spartire più con l’attesa che con la guerra.
Forse quella guerra non sarebbe giunta mai, per noi.
A quel tempo i nostri nonni morivano.
Perdevamo il gusto e il senso del racconto di guerra.
L’ebbrezza e l’agitazione dell’ipotesi, dell’estinzione, non le conoscevamo.
Restava un’agiatezza che non avevamo costruito noi.
Quell’agiatezza era un moltiplicatore d’intenti.
Agiva sull’attesa, mutandola in noia.
Presto anche la noia si sarebbe mutata in accidia.

La poligamia, sia pure ipotetica o virtuale, era acclarata.
Ma i nostri occhi si incontravano ancora.
Non mancavano d’intensità o del coraggio dell’incrocio, ma della profondità del progetto.
Sapevamo guardarci ma non abbastanza a lungo per porre un nuovo patto di amicizia.
Sapevamo tutto dell’intensità e così poco della precisione.
Quando tutti i vecchi perirono, era come se ci avessero tagliato la schiena.
Non fummo capaci di rinnovare un patto di nuova concordia.
Eravamo, va da sé, per l’accordo, che è sempre un gesto unilaterale, equivoco.
Ognuno per sé, dovevano essere gli altri ad accordarsi a noi, essere gli strumenti del singolo a contatto col mondo.
Non fummo capaci, in altri termini, di stabilire insieme, concordare, un nuovo metodo di vita comune.
Ci saremmo comunque estinti.

A un certo punto fu chiaro a tutti che non sarebbe venuta nessuna guerra.
Non dirò dei riti notturni, che ebbero a che fare col cannibalismo più che con l’orgia, o forse fu il contrario – ma non ha importanza, non ha importanza alcuna.
A pensarci bene, non potrei neppure definirli tribali, quei riti, poiché non c’era alcuna tribù, in quel posto.

Un giorno vennero a dirmi che uno di noi era morto.
Era la norma.
Ma lui, il ragazzo che era morto, non era morto davvero.
Io lo sapevo.
Era solo andato via, e questo non si poteva credere nel posto dell’attesa, della noia, dell’accidia.
Ristrettezze materiali e ristrettezze morali.
Queste due categorie, che sono entrambe categorie dello spirito, portarono molta gente a voler credere che lui fosse morto.
Preferirono questa versione dei fatti, semplicemente scelsero un orientamento piuttosto che un altro, e molti vollero credere che si trattasse persino di un nuovo orientamento politico.
Sulla base di questa versione dei fatti fu formalizzato una sorta di nuovo mito fondativo del posto che abitavamo.
Non più l’attesa, ma la morte giovane.
Non dirò delle conseguenze edonistiche che ebbe questa scelta.
Io so solo che quel ragazzo che era andato via, che non aveva mai visto il mare, porto con sé, lontano da qui, lo spirito del pescatore.