Sarò sincero: mi piace il nostro sesso. Cammino sempre così, pensando all’ingranaggio – meglio, o peggio, a come incepparlo. Capisci bene, mia signora, che è un fatto d’incastri, l’ingranaggio, e non è che faccia male, ma neppure bene. Il rumore è sordo, lo stacco completo, inoltre – movimento innaturale – io ricerco l’inceppamento, lo stop, l’alt, il congelamento. A noi, invece, è dato il liquefarci: così è il nostro sesso.
E poi giunti al punto di fusione noi evaporiamo, sappiamo già come finisce: ci asciugheremo l’un sull’altra, insozzati, inzuppati. Nel frattempo è budino, tempesta, yogurt: siamo noi, ed è un miracolo. Sì, io amo proprio: nel sapere già che sarò ancora curioso di ascelle, ginocchia, padiglioni auricolari. Nell’infilarmi: che non è inceppare. Siamo noi orizzonte, mia signora: perciò orizzontali. Non c’è strappo, non c’è imbroglio. Non c’è stacco. Un’illusione, forse, un po’ circense: e senza rete.
Nell’incontro fra noi due io ho visto onde.
Dopo, non più io vedevo: ma noi.

Assaggia della sabbia, mia signora. Perché è questa che incepperà. Senti com’è dura, tutta insieme: non scende, soffoca. Ora immagina me, sempre uguale, sempre sabbia, a cercare il dente giusto: ecco i miei lividi sul costato, da santo immaginato. Ora osserva i miei baci sul tuo collo, da oste innamorato: alla malora, mia signora, è questo il nostro sesso: argilla, cotonfioc, panbagnato e vinbrulé: da brodaglia, senz’imbroglio, siam più vicini alla terra, te l’assicuro.