Giunto in quell’età in cui le illusioni sfumano pian piano nel campo delle velleità, il nostro inizia a interrogarsi sul movimento. Si è agitato molto (ma perché?) e poco ha concluso (ma poi cosa?). Si è agitato molto nello spazio, questo pensa, chiudendo gli occhi ricorda di esser stato in più luoghi contemporaneamente. Molto veloce, d’accordo (ma perché?), o solo molto bravo nel giustificare il tradimento (ma di chi o di cosa, poi?). Dunque è stato ubiquo nello spazio: mentre era in un luogo, e soprattutto mentre mostrava convincimento nell’essere in quel luogo, il nostro era altrove, altrettanto convinto. E più ci pensa e più conclude (ma perché?) che è questa la sua cifra, ed è la cifra del tradimento (ma di chi o di cosa, ancora?).
Per il nostro, quindi, l’ubiquità nello spazio è questione immorale.
Ma sa bene pure il nostro che anche le velleità sono illusione; se un’illusione sfuma nella velleità, è un fatto di finta modestia. Ma sfuma piano e a sua volta anche la velleità, il nostro lo sa bene, nel coro consenziente dell’illusione. C’è ancora un’età in cui tutto è potenza immaginata da giovani. Così il nostro riparte, ma da fermo. Ed eccolo che è già in due età diverse; come in precedenza è stato e sempre sarà. Si moltiplicano le età e i posti – temporali – in cui è stato, in cui sarà ancora. Anche qui, il tradimento: ma non solo non necessita più di giustificazione: se era in un posto mentre era altrove, e quell’altrove viveva di un altro tempo, allora non si è mai tradito nel tempo iniziale. Il nostro sa che qualsiasi azione, come un tassello di una piccola costruzione d’argilla, può esser collocata in un’altra epoca e allora non smetterà di agire e di essere agita: solo non sarà accaduta di una certa intensità agli occhi degli altri, che in quell’epoca non erano ancora nati.
Per il nostro, quindi, l’ubiquità nel tempo è questione immortale.