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L’altro giorno ho scritto una lettera d’amore. Era una lettera d’amore molto bella, che non ho ancora consegnato. Non mi si dia del presuntuoso. Sappiamo tutti quando abbiamo appena compiuto un’impresa. È chiaro che convivono in me due stati d’animo, quello dell’essere innamorato, che non ha idea dell’effetto che la lettera potrà sortire nel cuore della destinataria, e che trema al pensiero d’aver detto troppo, o male; e poi quello dell’essere amato, che sa invece d’aver scritto il necessario, quello che andava scritto, e che pure sa che quell’esser necessario è anche sufficiente.
Dal momento in cui ho scritto il mio nome in calce alla lettera in poi, l’amore inizia a finire. Per la prima volta in vita mia ho pensato che la consegna non ha alcun senso. Ho dato tutto, ho dato tutto con le parole. Un mio vecchio amico mi ha raccontato questa storia, una storia che non ricordo, di certo una storia in cui finiscono le parole. Certo, ecco com’era: è come se avessimo un serbatoio di parole, con alcune persone, e a un certo punto noi finiamo le parole che avevamo a disposizione verso quella persona.
Oh, ma non è una tragedia.
Sono dell’idea che si debbano usare gli occhi, per parlare.
Il mio problema è d’averli chiari. Molto chiari. E di sorridere con gli occhi. Questo mi rende nudo davanti alle persone. È difficile nascondere l’attimo buffo che colgo anche nelle conversazioni più nevrotiche, in cui si dovrebbe mostrare ira, orgoglio, rancore. Mi scappa tutto dagli occhi, come i gatti da cuccioli quando perdono quel brutto liquido verde dalle palpebre. Mi scappa l’amore, il riso, mi scappa la gioia.
Ho detto che l’amore inizia a finire. Credo che finisca quello nelle parole, nella rappresentazione. Ho riletto la mia lettera, me la porto dietro perché all’occorrenza… Ma c’è l’amore dei gesti, degli sguardi, non solo degli sguardi che si incrociano ma anche solo quello degli sguardi che si posano. Non sempre è necessario esser ricambiati nello sguardo. È molto bello guardare senza esser guardati. Guardarti mentre qualcosa ti incuriosisce, mentre balli un ballo che non conosci, mentre ti addormenti al sole, e non ti accorgi di me.
È come scrivere una poesia.
Dalla poesia, quella vera, si è sempre riscritti.
L’altro giorno io e lei siamo andati in questo posto molto bello, una masseria nel bel mezzo del niente della campagna. C’era una serata a tema e il tema era l’eros. Eravamo d’accordo che si sarebbe trattato di una fesseria per intellettuali. “Meglio una dimostrazione pratica”. Per la verità d’intellettuale c’era ben poco, a parte la solita danza di un corpo tormentato non si sa più da cosa, con sottofondo di pianoforte struggente, che ci ha fatto pensare a quell’artista concettuale presa in giro nell’ultimo film di Sorrentino.
Quella che a un certo punto, nella sua p’fomans, dà una testata al muro, e partono gli applausi timidi, smarriti.
Noi ridevamo.
Mi sono chiesto dov’è andata a finire la sensualità delle nostre madri, delle nostre nonne, che era una sensualità piena, anche autoironica… E forte. Le donne vestivano spesso di nero ma si rideva.
Il sesso può turbarmi, e anche molto, ma se ripenso a tutte le mie scopate, penso soprattutto alle risate. Alla complicità, all’intesa, e il risultato di queste due cose è sempre un sorriso o una risata, prima ancora che il classico fiotto di sperma che riga una natica o un seno.
Da dove proviene questo senso del tragico associato ai nostri corpi? E perché abbiamo bisogno di questa rappresentazione della tragedia, ovvero di un corpo di donna piuttosto omologato, che danza immalinconito come dopo uno stupro o l’abbandono del grembo materno? E noi uomini non meritiamo, anche noi, una rappresentazione adeguata per le nostre insicurezze?
Per fortuna non abbiamo avuto il tempo di pensarci. Tra le altre cose che si potevano fare in masseria, c’era da infilare la testa in una fessura a forma di fica ritagliata su un telo nero. Di fronte, in una stanza vuota, stava seduta una ragazza con un libro. Avevi delle cuffie. Lei leggeva delle cose erotiche. Ma questo io non l’ho visto né sentito perché a quanto pare non ho infilato bene la testa nella fessura e la ragazza non si è accorta di me, quindi non ha letto niente. Però la guardavo e lei stava ferma, ogni tanto faceva fare un giro nel vuoto al suo piedone nudo, poi guardava avanti dove pensava ci fosse qualcuno troppo timido o forse nessuno, poi beveva da una bottiglietta d’acqua, poi niente. A un certo punto si è voltata di lato e ha detto: “Domenica”.
Non so se accadrà qualcosa di domenica, o se incontrerò una donna con quel nome. O forse dovrei parlare con mia zia, che si chiama Domenica. È che cerco sempre un segno nelle cose. Forse è solo che quella donna non si è neppure accorta di me. Forse è inutile il mio sguardo in un contesto del genere, cioè un contesto fortemente estetizzato. Si estetizza tutto: l’amore, il dolore, l’eros. È sufficiente una bella diapositiva e ci siamo detti tutto quel che volevamo dirci a proposito di qualcosa, di qualsiasi cosa. Filtriamo tutto attraverso la rappresentazione, e allora che senso ha il mio scrivere? Che senso ha guardare una donna messa lì a leggere testi erotici, a piedi nudi, con un vestitino e uno sguardo che hanno il dovere di essere ammiccanti? Sembra che nulla possa essere originale, vissuto al di fuori delle coordinate conosciute dall’uomo del secolo scorso. Sembra che sia impossibile seguire una propria strada, nostra e di nessun altro. Chi lo fa, chi ci prova, ha qualcosa di mostruoso, oppure non esiste.
Forse anche la mia bellissima lettera d’amore ha questo limite. D’accordo, è il mio amore e di nessuno più.
Ma forse andrebbe accompagnata a qualcos’altro.
La mia voce, tanto per iniziare.