michael leonard tea

Un pomeriggio di calma primavera di molti anni fa, Jack ha sedici anni ed è sul letto con un libro tra le mani. Il sonno e l’intelligenza del ragazzo camminano a braccetto nel profondo del suo cuore. Di tanto in tanto, Jack sospende la lettura di questo libro, che racconta l’immortalità con una lingua semplice, apprezzabile tanto da un ragazzino quanto da un vecchio saggio. Anche quando è in sospensione, la mente di Jack non si discosta troppo dai meccanismi che in genere rendono viva una lettura. Cerca un pensiero, o un ricordo, che comunque gli sfugge. Se proprio lo acciuffa, allora può riprendere a leggere con la calma dovuta. A volte Jack tenta di mettere a fuoco la figura della ragazzina che abita nella casa di fronte; proprio in quei giorni ha preso a spiarla – mentre lei è al pianoforte – da dietro le tende della finestra nel corridoio. Quando riesce a focalizzarla con esattezza, con le gambe nude sotto il vestito bianco, qualcosa nel profondo dell’animo di Jack si acquieta, si distende, Jack smette di essere un adolescente e riesce a pensare – pensando quelle gambe nude, avvalorate dalle cosce sode – all’adolescenza come se fosse vecchio, guardandosi indietro, e tuttavia al presente. È un tempo strano senza tempo, che facilita nuovamente la lettura – ma ecco il rullare di bacchette sulla pelle del tamburo, un mezzo soffio nel becco d’ottone del flicorno o del sousafono. Da qualche parte intorno all’abitazione di Jack un’orchestra di paese sta provando. Jack insiste blandamente con la lettura. Le prove si fanno più intense, richiamando sempre più l’idea di un concerto. Allora il ragazzo posa il libro sulle lenzuola – mentre uno o due rintocchi di campana confermano la solennità dell’avvenimento – in attesa che passi la banda, forse anche il santo: Jack decide di godere del momento per quello che è, per tornare solo in seguito al libro. Così passa l’orchestra con la sua marcia insieme sobria e trionfale. A poco a poco si avvicina all’abitazione di Jack per poi sfumare imboccando altri vicoli come in genere fa il vento. A quel punto Jack riprende la lettura distendendosi su un fianco (la luce da fuori è leggermente più debole, è necessario cambiare posizione perché ne arrivi a sufficienza tra le pagine). Dopo qualche minuto torna l’eco della banda. Sta facendo il percorso inverso e questa volta sembra puntar dritto proprio sotto la finestra della stanza di Jack. Adesso però il passaggio nel libro non consente alcuna interruzione, così il ragazzo s’impone di proseguire:

“Il fascino delle persone antiche. Quello sì, discreto davvero. Da loro ricevere in dono una fionda. Lasciarsi andare nel futuro più antico, in quell’era d’oro e di bronzo assieme che sta sempre prima e dopo di noi. Allo stesso modo, venire da lontano. Scalmanarsi per un nonnulla. E così incontrare la gioia degli esclamativi. Operare ogni giorno, ogni volta che si può, un proprio discreto vaticinio. Lasciarsi guidare da questo sguardo d’interiora, setacciando le rive del fiume in attesa non più di un cadavere – ch’è sempre il proprio – ma di risposte. Ancora su quelle rive, affidarsi all’affinarsi in seguito di certe questioni: non trattenere niente, accogliere anche il passaggio di altri nei pressi del nostro fiume. E scoprire che è un lago, allo stesso modo per tutti salato.”

Passata la banda, Jack resta immerso nella lettura per un’ora abbondante, durante la quale solo una volta fa capolino, nella sua testa, l’idea o quello che è già il ricordo della giovane pianista; molti anni dopo, dovendo ricordare o raccontare cos’è la primavera a un gruppo di sconosciuti, Jack ricorrerà non tanto alle parole di quel libro quanto al suo procedere per verbi all’infinito, un modo come un altro per dire che la sua storia o quella degli altri, comunque la si voglia mettere, non è ancora finita.