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Viviamo un costante presente di stanca predizione. La tecnologia è utile proprio a questo, a predire non tanto il destino dell’uomo quanto il destino del mercato. L’ipotesi non è presagio divino ma strumento al servizio dell’economia. L’atto più profetico che ci riconosciamo è contenuto da qualche parte nel nostro codice genetico. Nel giro di poco sarà possibile sapere tutto, di noi, alla nascita. Come andrà, come non andrà, che talento avremo e di che pena moriremo. Alla scienza ci affidiamo come un tempo agli sciamani, senza neppure troppo indagare. Chi è fuori, è fuori, non è raccontato, si è tollerati solo se produttivi; sciancati, ciechi scemi o altro, non importa.

Per questo capita di aspettarmi l’inaudito, dalla vita prima ancora che dal racconto. Sono sempre grato quando riconosco creature sacre (o anche solo soprannaturali) costrette in forma umana. Draghi, ninfe, profeti, divinità ulteriori. Persone che non sono solo persone e che in ogni modo testimoniano la grazia o anche solo la gioia di esser vivi. Anche attraverso il dolore.
Al racconto chiedo invece di dire lo sconosciuto, quello ancora che non sappiamo, in un’epoca in cui tutto sembra essere già rappresentato, avere una forma. Mi si racconti il mistero, l’ipotesi radicale che ci tiene al mondo, ma senza svelarla. Da quando pretendo di sapere tutto, non so niente, il cuore non batte, e anche la conoscenza, blanda, del reale, sconfina nella sua parodia.
Mi si sussurri all’orecchio quel che non so, mi si riveli la meraviglia ma non il trucco, l’impalcatura segreta che tiene insieme tutto l’ambaradàn.
Voglio credere; tutti lo vogliono.

Quanto a me, mi chiedo spesso se mi trovo a terra, in cielo, o tra queste due che restano ipotesi. Forse il viaggio è proprio l’assenza di risposta al quesito. E quali sono al contrario le esperienze che ti fanno uomo? La guerra, la donna? E quelle che ti fanno divino? Forse la miseria, o il dolore più atroce, o forse anche questa è solo retorica, una delle tante a disposizione.
Scegliere la preghiera?, non so, ma tutt’attorno si dovrebbe tacere.

Da poco ho invece scoperto il battere a macchina.
Un tempo si diceva che chi sapesse battere a macchina possedesse un talento, a prescindere, è evidente, da quel che scrivesse. Il talento nel gesto.
La trasmissione del pensiero su monitor tende alla telepatia; con questa utopia sono cresciuto io. Il gesto fisico di comporre la pagina, architettando spazi e tempi, ti induce invece all’ascolto del fantasma di uno stile e dunque di tutti i fantasmi.
Poi l’abilità e la fatica spazzano il fronzolo, puliscono gli ingranaggi del cervello e quel che resta è il palco, senza quinte, di un teatro impolverato di provincia – là dove brulica un’umanità fatta di profeti di strada, draghi infelici e divinità col mal d’Altrove; là dove ancora si pratica il mistero.