È fuor di dubbio che il più grande scrittore italiano sia stato Dino Buzzati. Quella sua lingua trasparente e inquietante, come nei bambini. Solo che non si può più scrivere come lui. C’è un equivoco, una distorsione per cui ogni volta che ci chiniamo sul foglio dobbiamo farci carico di una certa complessità – ma cos’è questa complessità? Secoli e secoli di letteratura italiana, europea, mondiale? Millenni di complessità, etica, morale, politica, onniscienza del senso comune, che è sempre un sesto senso variabile della nostra società – per finire coll’ammantare il fallo di orpelli, come dicevano i greci, per avvolgere cioè di strati e strati di veli di raso nero quello stecchino di legno lasciato nudo dal ghiacciolo disciolto che è la verità. Ma non c’è nessuna verità. A parte il bene e il male. Il bene è Dino Buzzati, per me. La luce dello stile in mezzo a un’infinità di tenebra retorica. Il male? Giorgio Manganelli. La sua forma che si azzuffa e si richiude come lava incandescente su un villaggio sorto a valle di un vulcano. Mentre Giorgio se ne sta in disparte e ride, ride e ride di noi che non capiamo. Non è fantastico?
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Arturo Brachini | La passeggiata (o l’occorrenza del male)