Abolire ogni distinzione tra sogno e incubo: questo mi pare un discreto e onesto proposito per gli anni a venire. Un fatto di giustizia, che all’essenza stessa dei fatti si richiama; e un fatto più precisamente linguistico.
Stiamo ai fatti: come questi, i sogni o incubi che dir si voglia sono poi interpretati, e in base a quell’interpretazione, umana e del tutto fallibile, classificati nell’uno o nell’altro senso: positivo e rassicurante il sogno, inquietante e viscoso il più mesto incubo. Ma un fatto è un fatto e, senza citare lo stracitato Umberto Eco, l’interpretazione viene in seguito, più artificiosa che mai: e questo sempre.
Insomma, a me pare che coi sogni (o cogli incubi) si tenda a fare come con gli animali, soprattutto i domestici, cui certi padroni attribuiscono a tutti i costi espressioni e sentimenti umani; allo stesso modo lo smontaggio e rimontaggio di un sogno, quando non è materia di studio di bassa scienza d’accatto e fai-da-te, è comunque accompagnato da un giudizio, e in base a quello si classifica… Ma vado ripetendomi: veniamo allora al più preciso ambito linguistico.
Siamo d’accordo che nessuno “sogni sogni” (a parte nelle canzoni, specialmente anglofone: I’ll be dreamin’ my dreams with you, cantavano i Cranberries, se non erro, senza dimenticare la più nota Dream a little dream of me), né “ìncubi incubi”, anzi – sia i sogni che gli incubi si fanno, come fossero d’argilla o mattoni o paglia o lievito. Eppure sappiamo che in assenza di sostantivo (e qui registriamo l’innaturale prevalenza statistica del sogno sull’incubo) si preferisce il verbo sognare: “Stanotte ho sognato che x faceva y”, e in questo non possiamo non notare il richiamo al forte desiderio di racconto e condivisione di un tal sogno – e mai di un incubo. L’incubo resta ancorato al fare.
Ma perché questo trionfo del sogno in forma di verbo? Non c’è comunque un altro verbo, quell’incubare che richiama il giacere sopra, il covare animalesco (di animali non antropizzati, beninteso) che l’italiano ci offre per indicare l’azione con cui abbiamo dato vita alla nostra personalissima materia onirica?
Il fatto (eccone un altro) è che la lingua si evolve per reazioni, a modo suo, ha riflessi afferenti al pudore, forse al politically correct persino nel più illibato ambito dell’oscura vita notturna delle nostre cellule cerebrali, e così nessuno dice mai: “Stanotte ho incubato che x faceva y”. E quel povero verbo confluisce così in ambito clinico.
Assurdo, oltre che ingiusto.
Ed è perciò, dunque, che gioverebbe all’intera materia onirica l’abolizione di ogni differenza tra sogno e incubo. Via i giudizi di valore, via le inquietudini del quotidiano trasposte pure in quella meravigliosa seconda vita che, come data in dono da una divinità che si trovava in sovrappiù di storie, ci accompagna per tutto il nostro stare al mondo. Non esistono cattivi sogni come non ne esistono di buoni. E d’accordo, sono pure disposto a mettere in ancora più assoluta minoranza, sebbene soltanto a un grado linguistico, i nostri incubi e quell’incubare che li richiama. Si sogni sempre, allora, si facciano sogni senza più sfumature di bontà o desiderio artificiosamente connesse. Si sogni e basta, e si racconti questi sogni, anche quando sono abitati da una bestia di piumaggio nero con gambette sottili e una testa che si allunga senza occhi né bocca, alla cui estremità spunta uno schifoso becco di carne mutilata, si sogni questo e altri abomini e non li si valuti in alcun modo: sono storie che vanno raccontate, sono disegni che seppure oscuri ci restituiscono al risveglio più vivaci di prima, come a rovescio fa una mamma che mette a letto il suo bimbetto tutto contento a giornata ultimata.