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Fra Giuseppe parlava pochissimo, e, quando provava a farlo, tartagliava e le gote gli si imporporavano. Lui, Fra Crispino e Fra Damiano, il frate ortolano, erano i frati della fatica, gli illetterati cari al Francesco d’Assisi giullare. Uscendo dal Giardino li avresti veduti morire ad uno ad uno, come animali in estinzione, i frati della fatica, quelli che avevano permesso per secoli ai conventi di esistere, mentre i frati dotti predicavano un verbo sterile, una vana teologia. Quando avresti preso a frequentare l’accademia, avresti visto anche i tuoi confratelli disprezzare il lavoro manuale. I frati della fatica non parlavano mai ed erano sciancati, rovinati dal lavoro manuale e dalla preghiera, meravigliosamente belli. Avresti visto moltiplicarsi i frati professori, in realtà ignoranti, chiusi nella meraviglia, votati alla chiacchiera mondana. I frati professori allontanavano da ogni possibile immaginazione di Dio; perché Dio aveva abitato le foreste, le grotte, si era offerto nell’acqua delle sorgenti, aveva parlato agli umani per mezzo dei volatili. E gli sciamani cristiani avevano parlato coi volatili, ammansito lupi, domato vipere, piantato bastoni che sarebbero diventati castagni sacri, emesso sangue da piaghe che foravano i palmi delle mani, levitato. I frati della fatica, incapaci di leggere, avevano solo formule magiche da ripetere ossessivamente, avevano solo segni da offrire alla visione, non parola da offrire all’interpretazione; avevano solo esempio da dare. Il popolo santo di Dio, il popolo della fatica, cercava solo loro per avere conforto, per vedere un miracolo nell’orrore di un’esistenza da affamati e umiliati.


Emanuele Tonon | Fervore